L’occasione perduta di Bompiani su J.R.R. Tolkien
Un’occasione perduta. Si può riassumere a questo la pubblicazione della traduzione italiana del Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher. Poteva essere la volta buona per la casa editrice Bompiani, proprietaria dei diritti su J.R.R. Tolkien nel nostro Paese, per fare finalmente saggistica di qualità su un autore che all’estero è studiato e insegnato all’università, è argomento di convegni internazionali e insieme ad altri ha segnato il Novecento con le sue opere.
Purtroppo, il risultato conferma l’insipienza della casa editrice rispetto all’autore del Signore degli Anelli. Ma prima di passare alla recensione del volume, permetteteci una digressione sugli editori che si sono occupati di Tolkien in Italia.
Un autore bistrattato
Come Smaug seduto su un cumulo d’oro e gioielli, l’editoria italiana ha sempre visto in Tolkien più una fonte di reddito che uno scrittore di narrativa da valorizzare e far conoscere. Le opere dello scrittore sono state pubblicate progressivamente da Astrolabio (1967), Rusconi (1970-1999), Adelphi (praticamente solo Lo Hobbit) e Bompiani (dal 2000 in poi). Esclusi forse i primi tentativi e le motivazioni iniziali, il tintinnar di monete è sempre stato l’obiettivo principale da perseguire dalle case editrici, per non parlare, poi, dell’inondazione di libri di dubbia qualità giunta con l’uscita dei film di Peter Jackson, tra il 2001 e 2003. Ultima in ordine di tempo, Bompiani ha ricevuto testimone e vizi dal passato, e continua a custodire avidamente il suo tesoro, insensibile alle richieste dei lettori, avendo sull’autore il misero progetto editoriale di proporre una strenna di Natale l’anno, come è inteso ora il libro di Kocher. Non si può spiegare, altrimenti, la riedizione tal quale, con qualche spolverata editoriale qua e là, delle opere ereditate da Rusconi. Ma i volumi di Tolkien presentano ormai apparati critici molto datati, come l’introduzione al Signore degli Anelli di Elémire Zolla, scritta nel lontano 1969 e smentita, nel medesimo libro, dalla Prefazione all’edizione del 1966 scritta da Tolkien stesso. Non si può spiegare in altro modo, il clamoroso taglio di circa trenta righe di testo alla fine del capitolo “Molti incontri” del Signore degli Anelli, avvenuto nell’edizione del 2003 e ancora non ripristinate a 8 anni di distanza e nonostante le diverse ristampe. Non si spiegherebbe, altrimenti, la mancanza di nuove traduzioni per opere che ne avrebbero estremo bisogno, come Il Silmarillion, il saggio Sulle Fiabe presente in Albero e Foglia e la collezione delle lettere La realtà in trasparenza, tutte piene di refusi, omissioni e, in alcuni casi, frasi completamente travisate. Da ultimo, non si spiegherebbe nemmeno l’assenza delle novità di quest’anno dal sito web Bompiani dedicato a Tolkien: un libro pubblicato addirittura nel settembre scorso, L’arazzo di Tolkien (volume che meriterebbe molta attenzione per la qualità dei contenuti e di cui faremo presto una recensione) e, appunto, Il Maestro della Terra di Mezzo.
Un volume di quarant’anni fa
In questo desolato contesto si inserisce ora il volume di Kocher, pubblicato nella collana “Saggi Tascabili”, in cui figurano anche altre opere sullo scrittore inglese di discutibile valore critico. Professore di letteratura inglese dell’Università di Stanford, Kocher scrisse nel 1972 Il Maestro della Terra di Mezzo, cui seguì quasi dieci anni dopo A Reader’s Guide to the Silmarillion, l’autore scomparve nel 1998. Sconosciuto in Italia, Kocher ha avuto il merito di scrivere un’introduzione chiara e dettagliata a tutte le opere di Tolkien pubblicate mentre egli era ancora in vita – per quanto alcune delle conclusioni dell’autore siano ormai superate, soprattutto dagli studi di Tom Shippey. Alcune delle sue tesi sono piuttosto interessanti, altre divertenti in una prospettiva storica: il libro fu infatti scritto cinque anni prima della pubblicazione del Silmarillion da parte di Christopher Tolkien e, soprattutto, molto prima della pubblicazione dei 12 volumi della History of Middle-earth. In molte occasioni, quindi, Kocher giunge a conclusioni senza sapere ciò che sappiamo oggi sul legendarium tolkieniano. Le sue intuizioni hanno tuttavia retto bene per decenni. L’edizione italiana edita da Bompiani, però, tutto questo non lo dice. Se c’è una lacuna nel libro è proprio l’assenza di una prospettiva storica. Il curatore, Gianfranco de Turris (i cui trascorsi si possono leggere nel recentissimo saggio di Wu Ming 4), nelle poche pagine dell’introduzione, si dilunga a spiegare l’etimologia del termine “master” presente nel titolo, cita alcuni studi usciti prima del 1972 e poi dimentica di collocarlo all’interno della storia della critica tolkieniana che si è poi sviluppata molto oltre questo volume. Definisce “pioneristico” il lavoro del critico statunitense, ma poi liquida in poche e vaghe parole i quarant’anni che lo separano da noi: «Attualmente l’analisi specialistica cerca vie meno battute e più specifiche». De Turris non dimentica, però, di citare Zolla, onnipresente in tutti i suoi scritti su Tolkien, pur avendo scritto in un’epoca in cui dello scrittore inglese si sapeva ben poco. Il curatore piega poi il pensiero di Kocher per fargli dire frasi
non sue, come quando evidenzia “l’iter iniziatico” del percorso di Aragorn nel Signore degli Anelli o quando cita il critico per dire che Il Ritorno di Beorhtnoth «è assai lontano dall’essere un ripudio delle ballate eroiche del Nord, alle quali Tolkien si è entusiasmato per tutta la vita». Come se Tolkien avesse perseguito la Tradizione: è sufficiente citare le righe precedenti al passo menzionato per contraddire questa tesi: «Il fastidio provato da Tídwald per le citazioni delle saghe fatte da Torhthelm e per il suo voler vivere come in una saga non si rivolge tanto verso le saghe in sé, quanto piuttosto verso la cattiva lettura e la cattiva applicazione che ne fa il giovanotto» (p. 291). Per non parlare di quando de Turris sostiene che l’Unico Anello non produca alcun effetto sui «capi dell’Occidente come Gandalf, Elrond, Galadriel e Aragorn»; ma Kocher dice il contrario: «Gandalf non osa infilarselo, sapendo come opera l’Anello per farsi desiderare… Né osa accettarlo Galadriel quando l’Anello le viene offerto da Frodo… “il semplice desiderio di possederlo corrompe l’anima”, avverte Elrond».
Questo approccio provinciale prosegue poi per tutto il testo con una lunga serie di note in cui sembra che de Turris si sforzi di sfoggiare un’erudizione che non possiede affatto, per apparire come un grande esegeta e critico tolkieniano. Nelle sue note il curatore raramente è pertinente, quasi mai utile al lettore, mai allo studioso. Ne sono un esempio la nota 21 (p. 64), in cui si sorprende che Kocher chiami col nome di Negromante anche Sauron (sono la stessa persona), oppure la nota 98 (p. 334) in cui pone nella Seconda Era (e non nella Prima), l’incontro tra Túrin e Mim. Ma la più clamorosa è la nota 60 (p. 244) in cui parlando di Minas Tirith, de Turris spiega, travisando completamente il testo, che la Montagna Bianca sarebbe il Taniquetil di Valinor su cui risiede Manwë. Da quello che scrive, viene da pensare che la sua conoscenza della critica tolkieniana sia limitata alla biografia di Michael White (p. 41), opera ben più scarsa di quella ufficiale di Carpenter, da cui sono tratte molte delle informazioni. Si cita ancora Zolla, ma sarebbe stato doveroso non ignorare completamente ciò che in questi anni è stato pubblicato anche in Italia, almeno per collocare il testo Kocher in un prospettiva storica.
Un testo valido ancora oggi
Perché allora dovremmo leggere un testo così datato, superato dalla critica successiva e curato così male nell’edizione italiana? Con una curatela più attenta e professionale avremmo compreso come Il Maestro della Terra di Mezzo offra ancora molti spunti di riflessione e sia stato sicuramente un testo fondamentale per serietà e acutezza di analisi. La visione del critico Usa risente inevitabilmente del limite costituito dal non aver avuto accesso a quella parte così essenziale del legendarium tolkieniano rappresentata dalla History. Kocher è il primo critico a delimitare il campo in cui dovremmo studiare Tolkien. Evidenzia schemi e corrispondenze che saltano fuori solo con un attento esame del Signore degli Anelli. Discute le idee di ordine morale e sociale che sono alla base del romanzo, descrive le caratteristiche dei diversi popoli (Hobbit, Elfi, Nani, ecc.). Passa in rassegna le opere minori di Tolkien, alcune difficili da trovare, e mostra come esse siano legate alla trilogia. È sicuro che nel raccontare le sue storie, Tolkien ci dica qualcosa su noi stessi e sul nostro mondo e che questa particolare forma
narrativa sia il modo giusto per raccontarla. Su tutto, spicca però il capitolo 6 dedicato ad Aragorn: è scritto così bene, ed è così evidente che l’autore sia molto appassionato dell’argomento, da far nasce il sospetto che in origine questo fosse un saggio singolo, cui poi Kocher ha aggiunto i capitoli di contorno. È evidente che su Aragorn, Kocher ha riflettuto di più che su ogni altra parte delle opere. I dettagli che l’autore ci fornisce e lo sfondo che descrive fanno saltar fuori il personaggio dalla pagina scritta e lo avvicinano a noi. Ancor di più sono importanti i numerosi spunti che dà nel capitoloe nel resto del volume. Tanto per fare un esempio, parlando di Frodo, Kocher commenta: «Nessun altro in tutta l’epica sogna così spesso e in maniera così diversa». Alcuni capitoli, come quelli sullo Hobbit e sulle opere minori, siano stati ormai resi obsoleti con gli scritti di Shippey, Verlyn Flieger, John Rateliff, Michael Drout e altri ancora. Ma già nel 1972 Kocher riferisce una battuta di Tolkien sull’autorità dei Quattro Saggi Chierici di Oxenford, che sono ovviamente gli editori del Oxford English Dictonary (p. 273), suggerendo l’importanza formativa del periodo in cui Tolkien vi collaborò. Nel capitolo 4 su “Sauron e la natura del male”, la discussione si apre a gran parte del libro sulla questione di libero arbitrio contro destino. La riflessione di Kocher rende un po’ più chiara l’idea che Tolkien aveva su come gestire questa potenziale dicotomia. Sicuramente, non è valida la sua affermazione che nel Signore degli Anelli ci sia una «netta dicotomia tra Bene e Male sulla quale Tolkien ha scelto di costruire il romanzo» (p. 203). È esattamente l’opposto di quel che lo scrittore aveva in mente e ce ne rendiamo conto leggendo le sue lettere e le altre opere. Anche in questo caso, Shippey ha evidenziato come la natura del Male sia una “privatio boni”, ma in questo la critica non è unanime e alcuni studi recenti sui Tolkien Studies ancora dibattono la questione (i saggi di John Wm. Houghton e Neal K. Keesee nel volume 2, quelli di Brian Rosebury e James G. Davis nel volume 5). Ma il lettore dell’edizione Bompiani di Kocher tutto questo non potrà saperlo, vista l’assenza di un apparato critico degno di tale nome, che ci avrebbe contestualizzato Il Maestro della Terra di Mezzo e avrebbe reso merito a un critico che fu veramente «un pioniere».
– Il sito web Bompiani dedicato a Tolkien
– Il saggio di Wu Ming 4
– Sito dei Tolkien Studies
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Penso sia giunta l’ora di far sentire pubblicamente il dissenso contro queste decisioni editoriali di Bompiani, dettate – per me – più da ignoranza e pigrizia che reale volontà di mantenere lo status quo per convinzione. E sarebbe bene pensare ad una strategia comune.
Un post scriptum.
Io credo che la traduzione de “Il silmarillion” di Saba Sardi sia molto bella ed evocativa. Non so quanto abbia tradito e violato e incompreso il testo originale, ma da un punto di vista squisitamente letterario è notevole e rende assai bene i ritmi, la cadenza e il lessico “arcaicheggiante” di Tolkien. Non posso però parlare di tutta l’opera, in quanto in Inglese ho letto soltanto il capitolo su “Beren e Luthien”.