Chi ha letto il Signore degli Anelli o visto la trilogia di Peter Jackson può essere spinto a desiderare uno dei modelli di società ritratti nel volume da J.R.R. Tolkien. Si tratta della Contea degli Hobbit (The Shire), una comunità agricola nella zona nord-occidentale della Terra-di-mezzo: sembra un paradiso sia dal punto di vista sociale sia da quello economico. Gli Hobbit convivono pacificamente, impegnati nei loro affari quotidiani: il lavoro nei campi, la vendita di beni elementari e l’immancabile pinta di birra serale al pub Il Drago Verde. Ce n’è abbastanza per avere nostalgia di un mondo che, in effetti, non è mai realmente esistito, anche se assomiglia da vicino alla vita di campagna che si faceva fino alla metà del Novecento. Allora, ci si può fare una domanda: è possibile riprodurre la Contea?
Etichette sbagliate
In molti, tra economisti e filosofi, si sono fatti la stessa domanda e hanno avanzato alcune soluzioni. Periodicamente, vengono così pubblicati articoli e saggi in cui il modello della Contea è accostato a quello descritto dalla teoria economica del Distributismo (in italiano anche conosciuta come Distribuzionismo), formulata da pensatori come Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc, per applicare i principi di dottrina sociale della Chiesa cattolica espressi nelle encicliche papali Rerum novarum e Quadragesimo anno. L’accostamento tra la Contea e il Distribuzionismo è un’opinione diffusa soprattutto Joseph Pearce, professore di Letteratura all’Ave Maria University in Florida, ed esposta nel volume L’uomo e il Mito (Marietti 1820), ma anche da altri autori per lo più confessionali cattolici, evangelici e battisti. Alcuni esempi possono essere “Romantic Conservatives” di Charles A. Coulombe (scrittore amico e collega di Pearce) dagli atti della Tolkien Conference di Birmingham 2005 (la cui traduzione è stata pubblicata in “Endore” n. 13) o il saggio “Distributism in the Shire” di Matthew P. Akers
strong>, pubblicato da poco online sulla rivista cattolica conservatrice St. Austin Review (di cui Pearce è co-editor). Ne parla anche Stratford Caldecott, scrittore cattolico e seguace di Chesterton nell’appendice “Tolkien’s Social Philosophy”, nel suo libro “The Power of the Ring: The Spiritual Vision Behind the Lord of the Rings”. Senza entrare nel merito di un teoria economica che meriterebbe migliore attenzione, su cui c’è molta letteratura secondaria (anche su internet) e che è ben argomentata altrove, vorremo qui provare a sfatare il binomio Contea-distribuzionismo che, soprattutto per come esposta da Joseph Pearce e Matthew P. Akers, fa di Tolkien un “pensatore distribuzionista”, sovrapponibile a Chesterton, suo supposto mentore.
Ma se si leggono con attenzione i testi di Tolkien, le lettere e soprattutto le opere, e li si confronta con la teoria propugnata da Belloc e Chesterton, si può vedere chiaramente come ci siano molte differenze.
La terza via tra i modelli economici
Per coloro che guardano con sospetto sia al socialismo che al capitalismo sfrenato, il distribuzionismo è spesso presentato come una “terza via” di modello economico e sociale. Il credo distribuzionista si distingue per la sua idea di distribuzione dei beni e dei mezzi di sostentamento, prima fra tutti la proprietà della casa. Mentre il socialismo non permette alle persone di possedere proprietà (che sono sotto il controllo dello Stato o del Comune) e il capitalismo permette a pochi di possedere (come inevitabile risultato di competizione e speculazione sfrenata), il distribuzionismo cerca di consentire alla maggior parte delle persone di divenire proprietaria dei mezzi di produzione e della propria casa. Come Hilaire Belloc stabilì, la “Stato distribuzionista” contiene «un agglomerato di famiglie di diversa ricchezza, ma di gran lunga il maggior numero di proprietari dei mezzi di produzione». Questa più ampia distribuzione non si estende a tutti i beni, ma solo a mezzi di produzione e di lavoro, la proprietà che produce ricchezza, cioè, le cose necessarie per l’uomo per sopravvivere. Esso include terra, strumenti, e mezzi di produzione, ma anche la casa, fondamentale per la vita stessa dell’uomo e della famiglia. La proprietà privata dovrebbe, quindi, essere privilegio di quanta più popolazione possibile così che il popolo sia affrancato dalla “schiavitù del salario” nei confronti dello Stato Monopolista o del Grande Capitale. Per questo, fattorie, negozi e altre attività commericali dovrebbero essere di proprietà di famiglie o di gruppi di amici, piuttosto che di entità “gargantuesche”. È un
sistema che Bilbo e Frodo troverebbero certo familiare, come non dispiacerebbe loro lo slogan che Chesterton amava ripetere per riassumere la sua teoria (citato in Ciò che non va nel mondo, What’s Wrong With the World, 1910: traduzione italiana Lindau, 2011): “Tre acri e una mucca”. Ma è davvero questo il modello della Contea?
La Contea degli Hobbit
Proprio nella prima pagina del “Prologo” del Signore degli Anelli Tolkien dipinge un’immagine degli Hobbit e della loro vita nella Contea che evoca una Merrie England popolata da artigiani di campagna, fattori contadini e piccoli proprietari: «Il popolo Hobbit è discreto e modesto, ma di antica origine, meno numeroso oggi che nel passato; amante della pace, della calma e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata. Ora come allora, essi non capiscono e non amano macchinari più complessi del soffietto del fabbro, del mulino ad acqua o del telaio a mano, quantunque abilissimi nel maneggiare attrezzi di ogni tipo» (SDA, p. 25). Tuttavia sarebbe sbagliato fermarsi a questo quadretto iniziale. Tolkien non si preoccupa di spiegare come siano nate le differenze di classe tra gli Hobbit, né indaga a fondo i loro rapporti, ma sappiamo che di certo esistono, cioè che ci sono Hobbit più poveri di altri e illetterati, Hobbit agiati e anche Hobbit molto ricchi, anche se non entrano in conflitto tra loro. Fin dalla prima pagina de Lo Hobbit, Bilbo ad esempio è presentato come benestante, non costretto a lavorare per mantenersi (già prima di diventare ricco con il tesoro di Smaug). Quindi ha evidentemente delle rendite di famiglia che può amministrare. I Gamgee invece coltivano gli orti altrui e stanno a un livello sociale più basso dei Baggins. Non solo: «I poveri vivevano in tane estremamente primitive, dei veri e propri buchi con una sola finestra o addirittura senza, mentre le caverne dei benestanti continuavano a essere ampliate e decorate» (SDA, p. 31). Insomma, la situazione della Contea è evidentemente diversa dai “tre acri e una mucca” per ciascuno di cui parlava Chesterton.
Scopriamo anche che nella Contea non c’è un vero e proprio “governo”. Vige una sorta di anarchia auto-regolata e piuttosto statica: «Le dimensioni dei fondi, fattorie e botteghe rimanevano immutate per intere generazioni» (SDA, p. 36). Esiste un’autorità tradizionale (il Conte della Contea), molto limitata tranne che in tempi di crisi, una rappresentanza popolare (il Sindaco di Pietraforata), ugualmente limitata, e un corpo di polizia, le Guardie di confine e i Guardacontea (Shirrifs), il cui compito sembra essere soprattutto quello di presidiare le frontiere e controllare che gli stranieri non si infiltrino. La Contea è, infatti, una specie di enclave nella Terra-di-mezzo, con tutti i limiti che questo comporta. Già in questa breve descrizione non emerge un quadro idilliaco di società. C’è una stratificazione sociale, c’è la povertà, c’è l’arretratezza (l’unico “sito industriale”, come evidenza lo stesso Akers, è il mulino di Ted Sabbioso), c’è l’autarchia (l’erbapipa è l’unico prodotto oggetto di scambi commerciali con l’esterno) e, soprattutto, c’è una chiusura ideologica verso il resto della Terra-di-mezzo. Più che presentare un modello ideale, Tolkien sembra riflettere sul modello stesso, al quale non risparmia critiche, come vedremo.
Pearce, invece, stabilisce la corrispondenza tra Distribuzionismo chestertoniano e Tolkien dando per scontato che la Contea sia un’utopia. Ma la Contea non è un luogo virtuoso, nonostante gli Hobbit siano un popolo che possiede alcune virtù evidenti. La Contea si potrebbe considerare come un “Piccolo Regno” esteso e trapiantato nella Terra-di-mezzo. Il modo più semplice per descriverla è dire che la Contea altro non è che un “calco” dell’Inghilterra, come spiega bene
Tom Shippey nella “Via per la Terra-di-mezzo”. Lo studioso fa anche notare come nella “Prefazione alla seconda edizione” inglese del Signore degli Anelli, Tolkien scrive che il capitolo “Percorrendo la Contea” ha «qualche fondamento nell’esperienza» anche se non ha «assolutamente alcun riferimento alla politica contemporanea», nemmeno al governo socialista di “austerità” nella Gran Bretagna del 1945-50. L’esperienza di cui parla lo scrittore è la sua vita: Tolkien vi ritrova i ricordi nostalgici del Worcestershire, di cui la sua famiglia era originaria. È la contea più occidentale dell’Inghilterra, ricettacolo di antiche tradizioni anglosassoni: altrettanto isolata della Contea, con il ricordo sfumato di antichi regni, ma in effetti rinchiusa in se stessa per conservare un idealizzato stile di vita “inglese”. È la stessa critica che Tolkien fa al modello sociale e economico della Contea. Attingere alla nostalgia dei luoghi dell’infanzia non significa trasformare quest’ultimi in utopie sociali.
Un modello in crisi
Nelle sue opere, Tolkien fa almeno due critiche palesi al modello rappresentato dalla Contea degli Hobbit. Innanzitutto mostra come l’idea di vivere nella ripetizione identica del tempo, degli usi e costumi, nella diffidenza per tutto ciò che è straniero, diverso, fuori dall’ordinario, , sia uno degli aspetti più caratteristici e più negativi della Contea. Stando al racconto pare che fosse tendenzialmente il biasimo ad accompagnare “quegli Hobbit che venivano presi dalla follia del vagabondare e che – se mai facevano ritorno – erano poi strani e taciturni”, nonché considerati meno “rispettabili”, come capita a Bilbo e Frodo. La diffidenza verso tutta la tradizione elfica, e verso chi aveva a che fare con essa, rappresentò “l’atteggiamento prevalente nella Contea alla fine della Terza Era, e gli eventi e i cambiamenti che misero fine a quell’era di certo non riuscirono a dissiparlo del tutto” (Le Avventure di Tom Bombadil, p. 11). Insomma pregiudizio e ottusità sono ben duri a morire a ovest del Brandivino.
I personaggi positivi per Tolkien sono quelli che trovano il coraggio, la voglia, di violare i confini, di uscire dal mondo domestico, di seguire il sentiero delle storie e delle leggende, per andare a scoprire cosa c’è oltre. È quello che fanno – unici – i cinque hobbit di cui Tolkien ci racconta la storia. Essi rinunciano all’omologazione e al conformismo che regnano nella Contea, quel piccolo mondo antico che è raccontato nei suoi aspetti positivi e negativi, cioè guardato con il necessario disincanto.
La seconda evidente critica che Tolkien muove alla Contea è che una società così autarchica e isolata è senza difese, alla mercé del primo demagogo che arriva a irretire i contadinotti Hobbit. E’ esattamente quel che accade. Il capitolo “Percorrendo la Contea” del Signore degli Anelli presenta le conseguenze dell’influenza corruttrice di Saruman, insita nell’amore per le macchine e nel desiderio di soggiogare il mondo naturale. Anche in questo caso esiste una connessione con il mondo reale, poiché l’immagine legata all’infanzia di Tolkien della bruttezza industriale nel bel mezzo della natura è quella del Mulino di Sarehole, con il suo “Orco Bianco” macinatore di ossa (Biografia, p. 47). Ad ogni modo il paradiso Hobbit può trasformarsi facilmente in una Mordor in miniatura, come dice lo stesso Frodo (SDA, p. 1211):
«Incominciò tutto con Pustola, come lo chiamiamo noi», disse Cotton; «e incominciò appena siete partito voi, signor Frodo. Aveva delle strane idee, quel Pustola. Voleva essere lui il proprietario di tutto, e comandare la gente. Presto si scoprì che possedeva infatti già più di quanto gli spettasse; e continuava ad accaparrare roba, e tutti si domandavano da dove prendesse i soldi: mulini e osterie, piantagioni di erba-pipa e fattorie. A quanto pare, aveva già comperato il mulino di Sabbioso prima di installarsi a Casa Baggins» (SDA, pp. 1088-1089).
La strategia di Saruman dunque è quella di fornire a un prestanome il capitale necessario per accumulare beni e acquisire preminenza nella Contea, fino al monopolio economico. L’equilibrio della ben regolata Contea si dimostra davvero fragile e crolla al primo assalto capitalistico. Allo stesso tempo Saruman, come ricorda bene Shippey, ha una certa compatibilità con il socialismo reale. I suoi uomini dicono di raccogliere cose «per distribuirle equamente», anche se nessuno crede loro: un compromesso tra il male e la moralità particolarmente strano per la Terra di Mezzo, dove il vizio raramente si prende la briga di essere ipocrita. Persino Lotho “Pustola”, il parente di Frodo, che è chiaramente un personaggio avido e autoritario all’inizio, rimane comunque dalla parte della legge finché i suoi plagiatori prendono il potere, imprigionano sua madre, lo uccidono e se lo mangiano (se dobbiamo credere alle allusioni su Gríma Vermilinguo). «Un Jeremy Bentham per i capitalisti vittoriani? Un vecchio bolscevico per i nuovi stalinisti?», si chiede ironicamente Shippey. Nel suo saggio Akers arriva ad affermare che nel piano di Saruman la Contea doveva abbandonare l’economia localistica e inserirsi nel “mercato globale” della Terra-di-Mezzo, cioè nella competizione del “libero mercato” tra tutte le regioni (un progetto che sembra prendere vita più nella mente di Akers che di Saruman, dato che nel romanzo non ve n’è traccia).
A conti fatti, ci si può sbizzarrire a trovare per Saruman l'”applicabilità” che si preferisce, ma è un personaggio che incarna piuttosto una mentalità e un’attitudine universali. “Sharkey”, ovvero Saruman decaduto, è “l’uomo astuto”, “l’uomo delle macchine” e “l’uomo tecnologico” che fa penzolare davanti al naso
una carota utopica, un mondo di agi e convenienze in cui ogni nuovo mulino macina più velocemente di quello precedente. Tuttavia, come Ted Sabbioso avrebbe dovuto capire, «bisogna avere granaglie prima di poter macinare»; i padroni delle macchine finiscono per esserne solamente i guardiani, e tutto per nulla o, piuttosto, per un’insidiosa logica di espansione e accumulazione.
Non ci sono dubbi che la liberazione della Contea dall’influsso di Saruman ripristini la società agricola autoregolata dove non c’è ombra di conflitto di classe. Ma questo fa di Tolkien un distributivista? E perché poi bisognerebbe prendere la Contea come riferimento? Alcuni lettori preferiscono vedere in Rohan e in Gondor i modelli sociali cari a Tolkien e dedurne che fosse un nostalgico dell’antica società germanica e aristocratica, ovvero della monarchia pre-parlamentare, come dichiara ironicamente in una lettera (n. 52). O era piuttosto un “anarchico” luddista, come scrive due righe dopo nella stessa lettera? O – perché no? – un “morrisiano”, dato che se non è certo quanto apprezzasse Chesterton è invece certissimo che riconoscesse il proprio debito letterario verso William Morris? In fondo i socialisti fabiani auspicavano proprio l’affrancamento delle classi basse attraverso l’istruzione (Bilbo che insegna a Sam a leggere e scrivere), il riconoscimento del lavoro e del merito (il giardiniere Sam che diventa Sindaco) e il superamento dello snobismo classista (Sam che diventa amico fraterno e compagno di Frodo).
La verità è che tutti questi esercizi lasciano il tempo che trovano. Cercare di far combaciare un romanzo con una dottrina sociale o economica è roba da zdanovisti sovietici o, appunto, da tradizionalisti religiosi. Siamo convinti che il professore sarebbe stato il primo a trovare risibile tutto questo.
– Il saggio “Distributism in the Shire” di Matthew P. Akers
– L’intervista a John Médaille, co-redattore di The Distributist Review e docente dell’Università di Dallas su cosa manca nella teoria distribuzionista per essere attuale
– Sito ufficiale di Joseph Pearce
– Articolo di Charles A. Coulombe su Endore 13
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– Sito ufficiale del disegnatore Ted Nasmith
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Complimenti, ottimo articolo.