Aprire un libro è entrare in un mondo. Ma a pochi lettori viene in mente che dietro l’oggetto c’è il lavoro di molte persone oltre l’autore. Su tutti, l’editore, il traduttore se il libro è di uno scrittore straniero e l’illustratore. Ognuna di queste tre figure passa molte ore sul testo, ma pochi sanno che il libro che giunge loro è frutto di una serie di scelte. E fra i tre ruoli citati, forse l’ultimo è quello che può fare meno danni, mentre gli altri due possono produrre gli errori più duraturi. Passiamo, quindi, in rassegna il lavoro di editori e traduttori in generale, prima di concentrarsi su J.R.R. Tolkien.
Un mestiere bistrattato
Il mestiere dell’editore è fatto innanzitutto di scelte, e le scelte sono fatte di esclusioni, non sempre così palesemente ingiuste come possono apparire agli occhi dei lettori. In ogni caso, sarà l’arrivo del successo di un’opera a fare tabula rasa di tutte le possibili ragioni di un rifiuto, insieme ai tanti mea culpa dell’editore che se lo è visto sfuggire. Interi libri sono dedicate alle stroncature di autori poi divenuti famosi. Il primo libro con Sherlock Holmes, ricorda lo stesso Conan Doyle, «tornava indietro con la precisione di un piccione viaggiatore». Persino Virginia Woolf rifiutò Ulisse di Joyce per la sua casa editrice Hogarth Press e definì lo scrittore «un liceale a disagio che si gratta i foruncoli». Nonostante questo, Ulisse resta un monumento della narrativa novecentesca. Tra i moltissimi esempi nostrani, si può citare Italo Calvino che fu bocciato nel 1949 da Elio Vittorini per il romanzo Bianco veliero. Vittorini così lo stroncò: «C’ è una gran fretta da bambocciata. C’è infantilismo e basta». Vittorini bocciò anche Il Gattopardo e fu recidivo perché lo fece in due occasioni per editori diversi. Lo scrittore, traduttore e direttore di collane siciliano non viene in mente a sproposito: fu, infatti, proprio Vittorini a suggerire nel 1962 alla casa editrice Mondadori di “scartare” Il Signore degli Anelli di Tolkien. «Dopo una lunga discussione interna», in accordo con Vittorio Sereni, bocciò Tolkien scrivendo: «Escluderei la possibilità di arrischiare un esperimento» (si può leggere l’articolo qui).
Se gli scrittori avessero seguito i consigli di editori (ed editor) avremmo avuto, ad esempio, un Signore degli Anelli di Tolkien molto più corto e più leggero. Il manoscritto (che lo scrittore inglese, voleva pubblicare insieme al Silmarillion) fu rifiutato da due editori. E vide la luce solo dopo sei anni di trattative: il libro, però, fu diviso in tre volumi. «Meglio poco che niente», disse Tolkien, che si era visto costretto a tagliare l’opera e a rinunciare a molto materiale aggiuntivo. Aveva dovuto eliminare una riproduzione del Libro di Mazarbul (la cronaca della colonia dei Nani, guidata da Balin, che tentò di reinsediarsi a Moria, trovato dalla Compagnia dell’Anello) e l’indice di tutti i nomi con traduzione inglese. La prima tiratura nel 1954 fu di appena 3.500 copie. Nonostante questo, vendette bene fin da subito, esplose negli anni Sessanta e non è uscito mai fuori catalogo.
Tradurre è un po’ tradire
«C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà», recita l’ultimo verso della poesia Una sera come tante di Giovanni Giudici (1924-2011). Se gli editori possono imporre tagli e divisioni, i traduttori possono giungere fino al punto di travisare completamente una frase o un intero brano. Per fortuna, accade molto raramente. Si dice che il traduttore soffra di una sorta di frustrazione per l’inevitabile scarto di significato che ogni traduzione comporta: traduttore, traditore, recita un vecchio adagio. Tradurre è davvero un po’ tradire? E si tratta di un tradimento inevitabile? C’entra forse il problema dell’interpretazione, del lector in fabula secondo la fortunata espressione del famoso saggio di Umberto Eco? Gli adattamenti da una lingua a un’altra sono a volte fondamentali: per fare una citazione famosa, chi non ricorda la battuta vaudevilliana nel film Frankenstein Junior, “Lupo ululà e castello ululì”? Fosse stata tradotta parola per parola (“Lì cantropo e là castello”), sarebbe risultata molto meno efficace…
Già San Girolamo (ma potremmo partire dalla Grecia antica) fra la traduzione parola per parola e quella a senso, aveva scelto quest’ultima: non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu, vecchio principio presente anche in Cicerone e Quintiliano. È ciò che si riscontra in studiosi più recenti, come Étienne Dolet (che fu arso vivo nel 1546 a Parigi per una sua traduzione troppo libera di Platone) e il contemporaneo Eugen Nida, che chiama ricerca della equivalenza dinamica (la traduzione ricrea nel ricevente l’effetto emotivo e semiotico dell’originale) contrapposta all’equivalenza formale, che si ha limitandosi a rispettare nella lingua di arrivo strutture e costrutti della lingua di partenza. Si vede bene che, passati duemila anni, i termini della questione rimangono gli stessi. Spetta certo solo agli specialisti entrare nella concreta prassi traduttoria, oggi peraltro ufficialmente coltivata da una specifica scuola del sapere linguistico, quella dei Translation Studies anglosassoni, che dal 1972 si sforza di definire un corpus teorico della traduttologia. Epperò, siamo pur sempre nipoti di Benedetto Croce, restiamo a dir poco tiepidi dinnanzi al loro annuncio di una novità sensazionale: un testo ha da essere considerato come figlio della cultura del suo tempo e la traduzione pure!
Editori e traduttori di Tolkien
Ben 16 traduttori si sono occupati delle opere di Tolkien, per 8 diversi editori. Già questo può far intuire come siano stati trattati i testi dello scrittore, visto che ovviamente non c’è mai stato alcun tentativo di armonizzazione dei termini più usati nei testi. Caso eclatante è sempre stato
quello dei toponimi: Forraspaccata e Granburrone per indicare l’inglese Rivendell, Hobbiville e Hobbitopoli per indicare Hobbiton, ecc. Anche la nuova traduzione de Lo Hobbit, uscita negli ultimi mesi per la sola Bompiani (mentre la Adelphi mantiene la vecchia traduzione di quarant’anni fa) non ha posto rimedio, anzi si sono aggiunte confusioni: Granburrone è divenuta Gran Burrone e Bosco Atro è ora Bosco Tetro (Mirkwood). Questo è solo l’inizio, perché alcune delle traduttrici delle opere più famose dell’autore erano giovanissime diciottenni quando fecero il loro lavoro. In un caso, la stessa traduttrice ha ammesso che il lavoro fu fatto «per imparare l’inglese»… Ci sono poi casi di veri e propri professionisti, studiosi, docenti, poeti e scrittori (come Massimo Bacigalupo, Camillo Pennati e Bianca Pitzorno) che si son dedicati a Tolkien. Su tutti però spicca l’appena scomparso Francesco Saba Sardi, traduttore di molte sue opere. Poliglotta, parlava e traduceva da sette lingue, è stato autore di 56 libri, tra romanzi, saggi, testimonianze di viaggi, raccolte di poesie. Ha scritto anche libri per ragazzi e ha compilato una vastissima raccolta di fiabe di varie parti del mondo per la Mondadori poi pubblicate nel 1983. Beh, Saba Sardi seguiva la scuola francese di traduzione e sicuramente condivideva l’opinione di San Girolamo.
Nonostante tutte queste qualità, ci sono moltissimi errori di traduzione nelle opere di Tolkien pubblicate in Italia. E se volete scoprirle andate qui: gli errori nelle traduzioni italiane delle opere di Tolkien.
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Sul fatto che Saba Sardi condividesse l’opinione di san Girolamo non c’è dubbio. Peccato che spesso il suo senso e quello dell’autore non coincidessero. Vedere la traduzione famigerata di “On Fairy Stories” ed il famoso passo in cui la sua traduzione dice l’OPPOSTO del testo di Tolkien.