Avevamo già detto che ci sarebbe stato un seguito. Non solo alla recensione di Wu Ming 4 a Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien, di cui avevamo pubblicato solo la prima parte, ma proprio di un dibattito che in ambito tolkieniano ha assunto proprio tutto un altro livello. E lo si è visto nelle diverse presentazioni del libro di Claudio Testi avvenute finora (a Modena, Ravenna e due volte a Roma), in cui il pubblico ha inondato di domande l’autore per il tema religioso è molto sentito, ma anche spesso travisato, come la prima parte del libro dimostra. Abbiamo ricevuto nuovi contributi e presto li pubblicheremo, ma intanto concludiamo la recensione fatta dallo scrittore bolognese, pubblicandone la seconda parte. Buona lettura!
UN TOMISTA NELLA TERRA DI MEZZO di Wu Ming 4
5. In coda
In coda alla mia recensione del libro di Claudio A. Testi, Santi pagani nella Terra di mezzo di Tolkien (ESD), è opportuno che io eserciti il diritto/dovere di replica rispetto alle critiche mosse ad alcune cose da me sostenute, sperando che questo possa arricchire la discussione.
Prima di entrare nello specifico, può essere utile ricordare quanto è già emerso nel thread sulla recensione stessa, e cioè la considerazione di Tolkien sulla centralità del conflitto nella sua sub-creazione, rintracciabile fin nella cosmogonia. In una celebre lettera citata in un commento dallo stesso Testi, Tolkien spiega che a differenza del mito cristiano, nel quale il male viene introdotto nel mondo dall’intervento esterno di un angelo caduto (che successivamente corrompe gli esseri umani e li fa cadere a loro volta), nel mito da lui inventato la disarmonia è introdotta prima della creazione. «In questo mito la ribellione di libere volontà create precede la creazione del mondo (Eä); ed Eä contiene già, introdotti in modo subcreativo, il male, la ribellione, elementi di contraddizione rispetto alla sua natura, quando viene detto E così sia» (Lettera 212).
Come sottolineato in precedenza, armonia e contraddizione si trovano insieme nell’universo fantastico tolkieniano e sono entrambi elementi fondamentali del suo farsi. Il fatto che non ci sia necessariamente contraddizione con la teologia cristiana, non significa che non ci sia contraddizione affatto. Le critiche che Testi muove a certe mie asserzioni derivano in gran parte da questo equivoco, che si colloca alla base del suo approccio filosofico alla narrativa.
6. Il male
Testi intende confutare Tom Shippey – e il sottoscritto che lo cita – quando afferma che Tolkien, pur muovendo da un’evidente concezione boeziana del male come privatio boni (= il male non ha una sua essenza, bensì è assenza di bene), nel Signore degli Anelli produce un racconto nel quale il male assume aspetti contraddittori. A tratti, nel corso della narrazione, il male sembra acquisire una forza indipendente, una volontà chiara, un protagonismo vero e proprio, in antitesi al bene, com’è piuttosto nella concezione manichea.
Di contro, Testi afferma che «la tesi boeziana del male come privatio boni non esclude affatto una reale e concreta esistenza di cose e (soprattutto) persone malvagie, che come tali vanno combattute» (p. 86). Shippey dunque non si renderebbe conto che non c’è alcun margine di ambiguità nella rappresentazione del male tolkieniana, e che essa è invece del tutto fedele alla teologia cristiana.
Sempre Shippey afferma (in Tolkien Autore del secolo, Simonelli, 2004) che il cristianesimo contiene e riconcilia una sorta di doppia visione del male, quella boeziana e quella manichea. Il fatto che la dottrina cristiana risolva questa dicotomia (proprio nel modo sostenuto da Testi: il male è privatio boni, ma al tempo stesso ha una sua concretezza che va combattuta) non impedisce a Tolkien di riproporre narrativamente una visione ambigua del male, arrivando a parlare di «due poteri» nell’episodio di Amon Hen (SdA, libro II, cap. X). La contraddizione «tra male come assenza (“l’ombra”) e male come forza (“l’Oscuro Potere”) […] nel Signore degli Anelli […] fa da guida a buona parte dell’intreccio» (Shippey, p. 167). Basti pensare che Tolkien non lascia nemmeno intendere se la scelta di Frodo di offrirsi volontario come portatore dell’Anello sia dettata dall’altruismo o dal richiamo dell’Anello stesso (SdA, libro II, cap. II).
È necessario quindi concordare con Shippey quando afferma che «non si potrà mai dire con sicurezza se nel Signore degli Anelli il pericolo dell’Anello viene da dentro, ed è peccaminoso, o viene da fuori, ed è puramente ostile. E c’è da dire che questo è uno dei grandi punti di forza dell’opera» (p. 172). È un punto di forza narrativo proprio perché l’opera non ci offre una soluzione bell’e fatta, teologicamente coerente e armoniosa, anche se, come afferma Testi, non c’è incompatibilità manifesta con la dottrina cristiana. Tutta la trama del romanzo è mossa dalle contraddizioni psicologiche ed etiche dei personaggi e da una rappresentazione del male per nulla a tutto tondo, bensì scivolosa. Perché Tolkien era un abile narratore e non un filosofo. Non cercava la consolazione della filosofia, ma la problematicità del mito, del racconto, che riflette i dubbi e le lotte dell’animo umano. Ed è questo che ne sancisce la grandezza letteraria, al pari di tanti classici del Novecento.
7. Aldilà
Il secondo appunto critico mosso da Testi riguarda il fatto che nella mia conferenza del 2010, Tolkien pensatore cattolico?, ribadivo l’assenza dell’idea di una salvezza eterna nella sub-creazione di Tolkien. Testi afferma, a buon diritto, che tale assenza non è già una negazione: «È indubbio che manchi una prospettiva salvifica simile a quella del Paradiso, ma è altrettanto indubbio che ci siano accenni (sia nel Signore degli Anelli che in altri scritti del Legendarium […]) a una dimensione ultramondana» (p. 87).
Ebbene, anche in questo caso bisogna distinguere tra la compatibilità dell’opera di Tolkien con la teologia cristiana, da un lato, e la dimensione letteraria, dall’altro.
Se è vero che laddove non c’è negazione c’è margine per l’armonia, è altrettanto vero che nell’arco di migliaia di pagine di Legendarium compaiono ben pochi accenni e molto vaghi a una dimensione ultramondana. Si potrebbe dire che il Reame Beato dei Valar, al quale sono destinati gli Elfi e i portatori dell’Anello, ricorda una sorta di Aldilà, ma sappiamo bene che non si tratta di un luogo astorico ed eterno.
Dal momento che i personaggi di Tolkien non agiscono in una prospettiva salvifica di tipo cristiano, la potenziale armonia con la teologia cristiana nulla toglie al dato di fatto: quei pagani possono anche essere virtuosi, ma devono fare i conti con una sola dimensione.
È pur vero che per Aragorn «non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo e al di là di essi vi è più dei ricordi» (celeberrima citazione nelle Appendici del SdA, che Testi pone a conclusione del suo saggio), ma non si può tacere che questa è la considerazione di un singolo personaggio, pronunciata in punto di morte al cospetto dell’amata, per consolarla dell’imminente vedovanza. Un appiglio un po’ debole per farne la chiave di volta di un’apertura teologica verso la salvezza ultramondana.
A onor del vero va detto che questa è l’unica concessione che il saggio di Testi fa alle letture confessionali.
8. Femminile
Infine Testi attacca duramente il mio esercizio di lettura intitolato “L’eroe e la dea” (in
L’eroe imperfetto, 2010), nel quale prendevo a prestito dalle teorie mitopoietiche di Robert Graves la terminologia per nominare elementi presenti nel Signore degli Anelli.
Testi riscontra che il concetto di “triplice dea” utilizzato da Graves è troppo adattabile alle circostanze letterarie: «Questa nozione (…), proprio perché contraddittoria, si può in qualche modo ‘ritrovare’ ovunque, sia nelle vergini, sia nelle madri generatrici sia nelle divoratrici» (Testi, p. 89). E ancora: «si ritrovano in questa sua lettura [di Wu Ming 4] tracce di un approccio allegorizzante, visto che alcuni personaggi non sono visti nella loro “individualità concreta”, ma in quanto “emanazioni”, “immagini”, “rimandi” o “figure” di altro (nel caso: la Dea)» (p. 89-90).
In effetti Graves sosteneva che l’elemento femminile trova nei tre volti della Dea – vergine dell’aria, ninfa della terra, vegliarda del mondo sotterraneo – la propria rappresentazione mitico-poetica, per così dire, una e trina. Da parte mia riscontrare questa rappresentazione tripartita nel romanzo di Tolkien è un modo – certo non l’unico – di dare conto di alcune coincidenze e ricorrenze. Ciò che bisogna capire è se questo esercizio di lettura rintraccia qualcosa che nelle storie di Tolkien c’è, e ci aiuta a farlo emergere, o se invece è del tutto fuorviante.
Nel mio testo cercavo risposta ad alcune domande.
Perché Shelob è femmina? (È un ragno gigante che in fondo potrebbe benissimo essere maschio, il suo genere non influisce sulla storia). Perché l’unica entità angelica che viene invocata a più riprese nel Signore degli Anelli è una Valië femminile? E perché la parte di Éowyn tocca proprio a una donna e non a un uomo? Chi è Baccador e chi è la misteriosa Donna del Fiume di cui è figlia? Perché è ancora un personaggio femminile, Galadriel, che fornisce a Sam le sementi “magiche” per far rifiorire la Contea?
Per spiegare queste cose è possibile supporre che Tolkien stesse attingendo a un bagaglio di temi e immagini poetico-narrative presenti nella mitologia e nella letteratura antica e medievale da lui conosciute?
Tolkien stesso era disposto a riconoscere che la figura di Galadriel doveva aver tratto ispirazione da quella della Beata Vergine – che è un archetipo mitico rideclinato in maniera originale nella teologia cristiana -, anche se poi nella storia risulta un personaggio completamente diverso e unico.
Se dico che Shelob è la cosa più simile alla strega di Hänsel e Gretel che ci sia nella narrativa tolkieniana forse tutto diventa più chiaro. La strega irretisce due bambini e ne imprigiona uno per metterlo all’ingrasso. Proprio come i ragni, non mangia subito la preda, ma la imprigiona (fintanto che la bambina non riesce a liberare il fratello). Una congiunzione tra le due figure – il ragno e la strega – è stata realizzata brillantemente da un ottimo conoscitore di fiabe e dell’opera di Tolkien, cioè Neil Gaiman, in Coraline (2002). Se la strega come mostro femminile divoratore è un tòpos fiabesco, nonché un archetipo narrativo, allora perché questo non dovrebbe valere anche per Shelob o altri personaggi tolkieniani? Non vogliamo accettare l’idea che si tratti della rappresentazione di uno dei volti del femminile rintracciabile fin nelle mitologie più antiche? Sarebbe come negare il fatto che Aragorn incarna l’archetipo del “re che ritorna”, nonché uno dei “mille volti” dell’eroe maschile, per citare Joseph Campbell. Oltre alla strega/mostro ctonio, ci sono altri volti del femminile incarnati da molti personaggi del Signore degli Anelli. E anch’essi all’interno della trama svolgono un certo ruolo nient’affatto casuale e connotato da alcuni particolari ricorsivi, che tuttavia non violano «l’individualità concreta del personaggio», bensì la stagliano su un fondale assai più vasto e profondo.
Il punto è precisamente questo: riconoscere un archetipo narrativo non contraddice la possibilità che tale archetipo venga riproposto in maniera originale all’interno di una storia narrata. Fare finta che la componente di originalità narrativa non esista o non abbia alcun peso, come fanno i simbolisti, è un limite esegetico; ma lo è anche fare l’opposto, cioè ignorare la componente mitico-archetipica. Per capire la profondità del lavoro di Tolkien occorre tenere presenti entrambi gli aspetti. Un fautore dell’approccio sintetico come Testi non dovrebbe avere difficoltà a cogliere questa visione sintetica, appunto. La grande potenzialità espressa dal lavoro narrativo di Tolkien – e si può dire dalla narrativa in genere – consiste proprio nell’affrontare la dialettica tra archetipo e unicità dei personaggi. Non considerare questo significa perdersi per strada una parte considerevole del tesoro che ci ha lasciato.
DATI ESSENZIALI
CLAUDIO A. TESTI
Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien
2014, ESD-Edizioni Studio Domenicano
18,70 euro
LINK ESTERNI
– vai al sito del collettivo Wu Ming
– vai al sito delle Edizioni Studio Domenicano
– vai al sito dell’Istituto filosofico di studi tomistici
– vai al sito del Tolkien Lab
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Sul problema del male in Tolkien.
Purtroppo non ho ancora avuto occasione di leggere il libro di Testi, ma sul problema del male mi sento di fare qualche considerazione dal punto di vista della visione teologica cristiana della teodicea.
A mio parere la questione, nel Legendarium, non si esaurisce nelle due risposte ‘boeziana’ e ‘dualista’ (che forse possono prevalere a riguardo dell’Anello, ma in qualche modo c’è un ‘male’ che colpisce anche l’Anello, per esempio), dato che il problema del male dal punto di vista teologico è caratterizzato da una complessità maggiore.
Una buona lettura e schematizzazione del problema del male la dà Armin Kreiner, Dio nel dolore – Sulla validità degli argomenti della teodicea. In tale libro Kreiner parla di: Reductio in mysterium. Dualismi. Male come Privatio boni. Sofferenza come pena per il peccato. Prospettiva pratica. Il libero arbitrio come causa del male. Creazione come processo in evoluzione. Problema del male naturale (che in effetti non viene preso in considerazione in un mondo di fantasia come quello tolkieniano).
Ma l’aspetto di fondo è che non si dà una risposta cristiana univoca e indiscutibile sul problema del male, tutte le risposte insieme o variamente combinate danno qualche risposta, ma non danno risposte definive. Sia chiaro che i dualismi non sono accettati, tranne qualche forma di dualismo cosiddetto mitigato, che poi è quello che troviamo nel Legendarium editato.