Non manca molto all’inizio del corso Aist 2016, in collaborazione con Accademia Medioevo nell’ambito del ciclo unico Il Medioevo attraverso Tolkien, che coinvolgere gli appassionati di J.R.R. Tolkien in una serie di conferenze, workshop, visite guidate, attività didattiche e stage a Roma e in vari luoghi sui Castelli romani (Lanuvio, Frascati, Genzano e Nemi): il primo appuntamento è il 30 gennaio. Ancor di più, l’attesa è grande per il corso di lingue elfiche del Tolkien Lab di Modena, lo spazio tolkieniano modenese gestito dall’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e dall’Associazione italiana studi Tolkieniani, che inizierà il 30 marzo. Proprio per preparare i lettori a tutte queste attività proponiamo un’intervista che mette in evidenza come l’autore dello Hobbit e del Signore degli Anelli fu anche un poeta e filologo medievale che nel dar forma all’universo della Terra di Mezzo creò delle lingue immaginarie molto elaborate. Intervistiamo Charles Delattre, docente di lingua, letteratura e mitologia greco-romana all’Université Paris Ouest Nanterre La Défense, che ha preso parte al «Dictionnaire Tolkien» pubblicato da CNRS Éditions (ne abbiamo parlato qui).
L’intervista
Appassionato creatore di lingue, perché Tolkien parlò di tale suo amore come di Un vizio segreto? «Tolkien fu un medievista e insegnò a Orxord lingue e letterature nordiche. Tecnicamente fu un filologo, uno specialista cioè di testi antichi, disciplina all’epoca volta a stabilire la versione originale dei testi provenutici da più fonti, cioè identificare il documento più autentico possibile a partire dalla tradizione tramandata, manoscritta, a stampa o di altro tipo che sia. È per questo che tutta la sua opera riecheggia la tradizione mitologica medievale, dalla letteratura arturiana alle saghe islandesi, dal poema eroico anglosassone Beowulf (una sorta di epopea cavalleresca) agli antichi testi gallesi, dalle leggende celtiche ai vari tipi di Edda scandinava, alle letterature in anglosassone, norreno, alto-tedesco… ma anche alla letteratura e mitologia greca e latina.
Scherzando, affermò d’aver scritto il Signore degli Anelli solo per creare un mondo dove permettere a due Elfi di potersi salutare. In una lettera del 1951, dichiarò di voler «dare una mitologia all’Inghilterra» ma in realtà in Tolkien è sotteso qualcosa di ben più profondo: il piacere della scrittura. L’amore per le filologia precede in lui l’intento mitologico».
Come potè inventare decine di lingue, tutte con una loro propria genealogia? «Da filologo, era pienamente consapevole delle strutture delle lingue e del loro modo di evolversi, in particolare di quelle indoeuropee. Per lo meno, di come le si concepivano alla sua epoca: si tratta infatti di una scienza relativamente nuova, istituita solo alla fine del XIX secolo. Anche se molti aspetti restano ancora oggi incompresi, è però questa dimensione del filologo, dello studioso di lingue antiche o scomparse, che gli ha consentito di creare lingue non solo originali ma anche ben costruite: conoscendo il vocabolario o inventandosene un po’, ci si può divertire a parlarle, le lingue tolkieniane! Ma soprattutto presentano una coerenza interna pari a quella delle lingue reali, e questo a un livello molto più profondo degli autori di fantascienza o fantasy cimentatisi con la creazione di lingue: non si è limitato a inventarle, ha donato loro una reciproca congruenza. Quello che si riconosce in lui è un approccio di tipo scientifico: per i linguisti, gli studiosi di linguistica e gli specialisti di lingue scomparse, leggere Tolkien dà la gradevole sensazione di ritrovarsi nel pieno del proprio mondo, però sotto le vesti di racconto e di piacere letterario».
Le sue lingue non si evolvono un po’ come qualcosa di vivo? «È stato il lavoro di tutta una vita a dare consistenza e coerenza a un materiale che via via s’accresceva in funzione delle idee che continuamente sorgevano. Nei suoi appunti, Tolkien mostra materiale per almeno una decina di libri mai venuti alla luce e rimasti allo stato di bozza, di spunto incompiuto. Allo stesso modo le sue lingue germogliavano, fiorivano in continuazione, si sviluppavano: ma sempre in un quadro di coerenza. Cercò di replicare un corpus di mitologie e di antiche lingue scomparse allontanandosi dal riferimento culturale greco-romano che sentiva abusato e per questo i suoi personaggi parlano idiomi che riecheggiano l’Europa del Nord: ma al contempo in lui la cultura classica, consciamente o no, riemerge e alcuni tipi sono ben riconoscibili: per esempio dietro Galadriel si intravede Circe. Ma non fu un processo repentino di creazione: Tolkien impiegò da venti a trent’anni a riscrivere il suo materiale e in questo modo potè arrivare fino a sette od otto versioni di una medesima storia, alla fine totalmente diversa rispetto all’iniziale. Ciò che affascina però è che alla fine di questo processo si ritrovano degli elementi estremamente classici. È noto che Galadriel all’inizio era un maschio, quanto cioè di più diverso dalla sua versione definitiva: solo poco a poco tuttavia ha traghettato questo personaggio verso un modulo molto classico, quello della magica incantatrice dell’Odissea omerica ma anche dei poemi tardo-medievali e rinascimentali. Ciò che in termini di eredità diretta viene evitato, alla fine riemerge in lui in fase di scrittura».
Com’è arrivato Tolkien a dare alle sue lingue questo senso di storicità? «Giustamente è ciò che più affascina gli appassionati di mitologia, e l’opera di Tolkien può in effetti essere presa come un corpus mitologico: a patto però di considerarlo nel suo insieme, con le bozze e le revisioni. In genere si studiano autori molto diversi, di epoche molto distanti, e si spera di arrivare a ricostruire una qualche sorta di unitarietà originale. Qui invece l’unità è presupposta sin dall’inizio, ma è presente in forma talmente ramificata, talmente riscritta, talmente diversificata ogni volta, che alla fine si può parlare di una mitologia esattamente negli stessi termini coi quali ci si può riferire a quella finnica o greco-romana. Grazie al figlio Christopher Tolkien sono stati pubblicati e messi a disposizione ben dodici volumi di appunti con la radici, sì, dell’opera, ma anche con tutti i suoi ripensamenti, le trasformazioni radicali, le modifiche e i cambi di prospettiva».
«L’opera di Tolkien può in effetti essere presa come un corpus mitologico: a patto però di considerarlo nel suo insieme, con le bozze e le revisioni». Oltre a vocabolari immaginari, note etimologiche e grammatiche fittizie, Tolkien realizzò anche dei veri e proprio alfabeti… «È un elemento che dà identità grafica e unitarietà al suo universo, permettendogli proprio per questo di differenziarlo in maniera profonda. Gli elementi più visibili, ma anche quelli che gli costarono più impegno, furono gli aspetti etimologici, la costruzione di una sintassi, le relazioni tra le varie lingue. Gli alfabeti furono invece un po’ come fogli bianchi da disegno: un supporto, un appiglio sul quale costruire all’occasione una scena per eseguire poi tutta una narrazione. Appassionanti per i lettori, ma per Tolkien funsero più che altro da strumenti di lavoro».
Tolkien si rifà anche a miti veri, come la sua versione di Atlantide… «Sin dalla giovinezza Tolkien sognò in modo ricorrente l’angosciante incubo di un’immensa onda che monta e minaccia di inghiottire il mondo. Rielaborò questo senso di catastrofe in una narrazione con riferimenti all’Atlantide platonica. In un lavoro rimasto incompiuto, il Notion Club Papers, uno dei protagonisti è un alter-ego di Tolkien che spiega come Atlantide sia veramente esistita, si chiamasse Númenor e che Platone ne abbia solo fornito la sua versione. Giocando con le parola “Atlantide”, che trasforma in “Atalante”, altra forma greca, e poi in “Númenor”, manifesta qui tutto il suo rapporto con la lingua greca, rivendicandone l’eredità e divertendosi sia con quella che col lettore».
di Simone Petralli
LINK ESTERNI
– Vai alla pagina personale di Charles Delattre all’Université Paris Ouest Nanterre La Défense.
– Vai al sito della della casa editrice CNRS Éditions
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