Avevamo già annunciato l’uscita del volume Tolkien e l’Italia curato da Oronzo Cilli (Il Cerchio Editore, 2016) in un articolo che potete leggere qui. Ora eccovi una recensione ad opera di Wu Ming 4, socio fondatore Aist e noto scrittore del collettivo omonimo e soprattutto, in questa sede, autore di diverse pubblicazioni dedicate a J.R.R. Tolkien (oltre che di un romanzo Stella del mattino), l’ultimo dei quali Difendere la Terra di Mezzo in cui è riuscito brillantemente, come scrive lui stesso, a «divulgare alcune tesi e punti di vista sull’opera di Tolkien che sono soprattutto patrimonio della comunità degli studiosi e di renderli accessibili a una platea più vasta», oltre a presentare acute analisi su temi e personaggi delle opere di Tolkien. È per questo motivo che siamo lieti di proporre ai lettori una recensione di chi i libri li legge e analizza in profondità. Buona lettura!
TOLKIEN E L’ITALIA
Note sull’omonimo libro di O. Cilli, pubblicato dalla casa editrice Il Cerchio, con introduzione di G. De Turris
di Wu Ming 4
1. L’abito fa il monaco
In alto compaiono il nome del primo autore, Oronzo Cilli, e il titolo TOLKIEN E L’ITALIA.
Subito sotto, con lo stesso font e dimensione, compaiono il nome del secondo autore, John Ronald Reuel Tolkien, e il secondo titolo, IL MIO VIAGGIO IN ITALIA, seguito da un sottotitolo: Diario inedito dell’agosto 1955.
Sulla costa del libro, idem come sopra: due autori e due titoli. La quarta invece è completamente in bianco.
Questa copertina contiene almeno tre informazioni false.
In primo luogo Tolkien non ha mai nemmeno immaginato di poter condividere a metà la copertina di un libro con uno sconosciuto.
In secondo luogo Tolkien non ha mai scritto un testo intitolato Il mio viaggio in Italia. Come si legge all’interno del libro stesso, il diario tenuto da Tolkien a cui si fa riferimento venne intitolato dall’autore “Giornale d’Italia” (in italiano).
In terzo luogo è falso che si tratti di un inedito, poiché è la traduzione del testo già comparso nell’opera di Ch. Scull e W.G. Hammond del 2006 J.R.R.Tolkien Companion and Guide (ma questo si apprende soltanto da una nota a piè di pagina 63). [1]
Voltata la copertina, si trova la prefazione dei già menzionati Scull e Hammond, i più pedissequi compilatori e cronologi dell’opera e della vita di Tolkien. Detta “prefazione” ammonta a ben quindici righe e si conclude con un ringraziamento a Oronzo Cilli «per avere dato un contributo così utile alla letteratura della bibliografia e biografia di Tolkien, da una particolare prospettiva italiana» (p. 5).
Prima di arrivare al testo, il lettore si imbatte ancora nell’introduzione firmata da Gianfranco De Turris, il quale elogia il libro del suo pupillo perché lo conforta in quello che lui ha sempre sostenuto: «mi fa piacere che tutto questo lavoro confermi quanto ho scritto in varie occasioni e soprattutto nella mia lunga introduzione all’antologia di testi storico-critici ‘Albero’ di Tolkien (Larcher, 2004; ed. ampliata Bompiani, 2007)». Vale a dire: all’inizio degli anni Settanta i militanti dell’estrema destra italiana adottarono Tolkien, lasciato orfano e snobbato dall’intellettualità progressista, poiché sentivano con l’autore inglese «una profonda sintonia di idee, valori e sentimenti». Dunque «non esistette alcuna ‘strumentalizzazione della destra’», ma soltanto «vera empatia sin dalla prima lettura» (p. 11).
La vicenda è arcinota, scritta e riscritta in centinaia di articoli di giornale e alcuni libri, ma Cilli la ricostruisce con una quantità di fonti e citazioni frutto del suo lavoro certosino di collezionista. Come ogni ricostruzione anche la sua porta acqua al mulino di una tesi. De Turris in buona parte la anticipa, ma c’è dell’altro, come vedremo.
Nella conclusione De Turris non risparmia al lettore la stoccata contro «l’arroganza dell’intellettualità nostrana passata e presente» che parla «per partito preso e da un punto di vista ‘ideologico’». Sic.
E’ con questi buoni auspici che comincia finalmente il libro di Oronzo Cilli.
2. Il grano e il loglio
La ratio del libro Tolkien e l’Italia è l’associazione stessa tra i due termini che compongono il titolo. Qualsiasi collegamento – importante o effimero che sia – tra l’autore inglese e il nostro paese viene scandagliato indiscriminatamente, a prescindere dal peso che tale collegamento può avere o non avere avuto sui reali rapporti tra Tolkien e l’Italia.
Questo è vero soprattutto per la prima parte del libro, la più ridondante, dove l’autore – cedendo alla propria attitudine di collezionista tolkieniano – non pratica nessun lavoro di sintesi o di selezione e si lascia prendere la mano, raccontando cose che spesso oscillano tra l’irrilevante e il ridicolo.
Ad esempio quando racconta che Tolkien, negli anni Venti, prestò la voce per alcune registrazioni su vinile legate a un corso di apprendimento dell’inglese per italiani: le tipiche situazioni di dialogo, nelle quali, apprendiamo, Tolkien recitò le battute di un tabaccaio e di un radiofonico. Oppure quando, partendo da un disegno realizzato da Tolkien nel 1914, «uno strano abbozzo di campane e lampioni danzanti dal titolo Tarantella» (p. 37), Cilli si lancia senza paracadute in un collegamento con il tarantismo pugliese, rintracciandolo perfino nel Signore degli Anelli, nell’episodio in cui il ragno gigante Shelob, ferito, arretra e si rintana, secondo Cilli compiendo «una danza rituale», ovvero un «rituale coreutico-musicale» (p. 38). O ancora quando riporta i passi di Hammond e Scull con gli elenchi di tutte le sedute della Oxford Dante Society; o la loro descrizione della permanenza di Tolkien a Venezia, con una profusione di dettagli che possono appassionare soltanto il feticista della ricostruzione biografica, interessato a cosa mangiò Tolkien nel tal ristorante, o al percorso che compì per raggiungere Piazza San Marco dal suo albergo.
In mezzo a digressioni di questo tipo, poiché l’andamento del libro è cronologico, ci viene raccontato del primo rifiuto di Mondadori a tradurre Il Signore degli Anelli, nel 1955, per ragioni commerciali; e del secondo, quello di Vittorini, nel 1962, per ragioni letterarie, che rivela il pregiudizio di quella generazione di intellettuali verso la narrativa fantasy.
Tuttavia per imbattersi in qualcosa di davvero interessante, bisogna arrivare alla seconda parte del libro. Lì si ricostruisce l’arrivo del Signore degli Anelli in Italia alla fine degli anni Sessanta, il flop della prima edizione Astrolabio, il successivo rilevamento dell’opus magnum da parte di Rusconi, le questioni inerenti la traduzione e la curatela. Anche in questo caso la ricostruzione è maniacalmente minuziosa, ma almeno fa emergere un’evidenza utile.
L’opera più importante di Tolkien (ma a Lo Hobbit non andò poi tanto meglio) subì in Italia fin dall’inizio una stratificazione di interventi. Partendo da una traduzione fatta da una ragazza alla prima esperienza, Vittoria Alliata di Villafranca, passando per la revisione di Quirino Principe, nonché per uno scambio epistolare con Tolkien – che oltre a non conoscere l’italiano, ebbe posizioni ambigue in merito alla traduzione dei suoi libri -, fino al particolare packaging riservato al romanzo da parte del gruppo di intellettuali che lo presero in carico, ciò che si produsse fu un bel guazzabuglio. Questo ci fa capire perché l’edizione italiana del Signore degli Anelli è quello che è, sia in termini di traduzione sia in termini di paratesti, e perché nel corso degli anni ha dovuto essere rattoppata a varie riprese. Leggendo questa parte del libro si esce rafforzati nella convinzione di quanto ci sarebbe bisogno, dopo mezzo secolo, di riprendere in mano quella materia da capo, con ben altro approccio, altra professionalità e maggiore conoscenza del testo e della poetica tolkieniana.
3. Capitani coraggiosi
C’è anche una seconda considerazione che si può trarre dalla ricostruzione storica di Cilli.
Quando nel 1970 l’editore Rusconi prese in carico Il Signore degli Anelli, dopo che l’editore Astrolabio era riuscito a vendere appena poche centinaia di copie (e solo del primo volume), il romanzo entrò a fare parte di un progetto editoriale che aveva degli intenti precisi, illustrati dall’autore fonti alla mano. Edilio Rusconi era un liberal-conservatore cattolico, con qualche nostalgia monarchica, intenzionato a costituire un nuovo polo editoriale. Per farlo chiamò come direttore editoriale Alfredo Cattabiani che – nelle parole del suo amico Piero Crida – «vide avverarsi il suo non tanto segreto sogno: quello di dirigere una casa editrice orientata verso la tradizione, nel senso in cui la intendevano studiosi quali Guénon, Jünger, Evola, Coomaraswamy e altri similmente orientati. Cattabiani fu abile ad alternare, nelle scelte di pubblicazione, letteratura e saggistica a più ampio raggio, oltre a testi che più gli stavano a cuore, in un continuo esercizio di equilibrio» (p. 350). L’equilibrismo di Cattabiani si inserì così nel più vasto progetto culturale e commerciale di Rusconi, che voleva parlare in modo nuovo alle masse di lettori, soprattutto attraverso magazine nazionalpopolari come Gente, Gioia, Eva Express. Una visione strategica quella di Rusconi che lo avrebbe portato a investire anche nelle neonate tv private e a fondare Italia 1, la rete poi acquistata da Silvio Berlusconi, che si accingeva a costruire il suo impero mediatico. Rusconi fu un precursore di quel cambiamento antropologico che trovò il suo compimento negli anni Ottanta.
Per questo capitano d’impresa, Cilli e De Turris spendono volentieri il termine di «coraggioso», riferendosi al fatto che pubblicando Il Signore degli Anelli contraddisse lo snobismo degli ambienti editoriali e accademici di allora nei confronti della letteratura fantastica. Secondo loro, pubblicare un romanzo fantasy, per di più di un autore conservatore cattolico come Tolkien, in quell’epoca in cui il dibattito culturale era estremamente condizionato da ciò che accadeva a sinistra (l’avanzata del PCI, le battaglie sindacali, le contestazioni studentesche, ecc..), sarebbe stato un grande gesto controcorrente, che sfidava l’egemonia culturale di ispirazione gramsciana-togliattiana.
Ebbene, questa immagine si basa su un equivoco fin troppo spesso reiterato e in cui fa comodo indulgere. Se negli anni Settanta gran parte degli ambienti culturali (editoria, università, salotti letterari) guardavano a sinistra, certo questi non rappresentavano la cultura dominante, cioè l’insieme delle opinioni prevalenti nella società, che influenzano il modo in cui si giudicano le cose. L’avversione che l’impostazione dell’editore Rusconi suscitava in certi ambienti colti progressisti si rifletteva solo parzialmente nel senso comune diffuso, che in quegli anni era in maggioranza quello nazional-cattolico, perfettamente incarnato dall’egemonia politica democristiana.
Uno dei numerosi elenchi che Cilli riporta nel libro è quello delle personalità a cui Rusconi inviò la primissima stampa del Signore degli Anelli, che consisteva in trecento copie numerate e fuori commercio. Si va dal presidente del senato Amintore Fanfani (DC) al presidente del Consiglio dei Ministri Mariano Rumor (DC); dagli industriali Alberto Pirelli e Remo Invernizzi all’arcivescovo di Milano Giovanni Colombo; passando per «magistrati, ministri, prefetti e uomini del mondo cattolico» (p. 179). Secondo quanto afferma Quirino Principe si trattò di un semplice «peccato veniale» (p. 341), ma è indicativo di quali fossero gli uomini di riferimento di Rusconi e Cattabiani: i reggenti della politica e dell’economia italiane di quegli anni, detentori del potere reale che raccoglieva il consenso della maggioranza silenziosa (non senza l’aiuto della strategia della tensione).
In definitiva il “coraggio” di Rusconi fu quello di chi offrì una nuova sponda al ceto dominante. E l’approdo di Tolkien in Italia ebbe un destino segnato sì dal conflitto ideologico di quel periodo, ma anche dall’essere stato inserito in un progetto che accettava senza indugi il terreno della lotta culturale in favore dell’ordine costituito. Così, suo malgrado, il vecchio professore, reduce di un’altra guerra, si ritrovò al fronte, preso in mezzo tra i tiri delle sentinelle del realismo socialista e la spinta di chi lo aveva arruolato suo malgrado in una battaglia che non era (mai stata) la sua.
4. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato…
Ancora più interessante è la terza parte del libro, quella che ricostruisce la ricezione dell’opera di Tolkien nella cultura italiana degli anni Settanta, e che contiene una lettura della vicenda «da una particolare prospettiva italiana», per riprendere Hammond e Scull della prefazione.
Questo è il vero cuore del libro, dove si racconta di come in Italia Tolkien venne recepito dai movimenti alternativi, sia quelli della Nuova Sinistra sia quelli della Nuova Destra, in rivolta contro le vecchie istituzioni della cultura e della politica. Da una parte gli Indiani Metropolitani e il fantomatico Gandalf il Viola, che leggevano Tolkien alla stregua degli hippies americani, mentre irridevano la rigidità ideologica della sinistra storica e anche di tante formazioni minori; dall’altra parte i giovani missini dei Campi Hobbit e il “camerata elfo”, che volevano rompere con il nostalgismo e il tetro autoritarismo dei reduci repubblichini. Ognuno applicava l’opera di Tolkien alla propria contingenza storica e lo leggeva dalla propria angolazione, ma condividendo la stessa insofferenza verso le cariatidi e i sepolcri imbiancati che dominavano la società italiana.
Insomma, per usare una metafora calcistica: uno a uno e palla al centro.
Non solo. Cilli si premura di ricordare – sempre fonti alla mano – che una certa lettura politica destrorsa dell’opera di Tolkien non è una prerogativa italiana, ma trova riscontri anche in altri paesi.
E qui invece si potrebbe ricorrere al detto “mal comune mezzo gaudio”.
Conclude Cilli: «Alla fine resta la consapevolezza che il mondo di Tolkien non può appartenere a nessuno né tanto meno essere arruolato da questa o quella parte politica. Si può entrare e viverlo con le proprie idee e le proprie esperienze ma senza alcuna presunzione di esserne il centro né tanto meno di possederne le chiavi interpretative» (p. 262).
Benché quest’ultima sia una morale assai banale, in realtà svela le motivazioni profonde del libro Tolkien e l’Italia. La ricostruzione di cui sopra è funzionale a una visione conciliante e pacificatoria, dalla quale tutti escono assolti e tutti vengono mantenuti in gioco. Pace libera tutti.
Ciò è possibile soprattutto perché Cilli è attentissimo a non entrare mai nel merito dell’opera tolkieniana, il suo rimane il lavoro di un collezionista, di un bibliografo, di uno che fa parlare gli altri (oltre metà del libro è composta di citazioni). Pagine e pagine sul contesto e nemmeno una riga sul testo. Non si sconfina mai, nemmeno di un millimetro, nel territorio della critica letteraria o della poetica, si rimane in equilibrio sul margine esterno, collezionando pareri altrui, messi tutti sullo stesso piano in una sorta di grande melassa, o piuttosto cortina eretta per celare l’evidenza.
Se infatti è vero – oltreché scontato – che le interpretazioni di un’opera letteraria sono tutte legittime, è altrettanto vero che non sono tutte equivalenti, perché non tutte le interpretazioni si fondano su una metodologia di lettura seria e sull’onestà intellettuale.
In questo senso non c’è bisogno di sindacare sui sinceri sentimenti dei militanti di destra degli anni Settanta per rendersi conto di quale lettura sia stata imbastita dai loro intellettuali di riferimento. A partire dall’imbarazzante sproloquio di Elemire Zolla che da quasi mezzo secolo fa da introduzione al Signore degli Anelli, e che ribalta completamente la prospettiva tolkieniana, descrivendola come narrazione del “Male assoluto”.
Mistificazioni di questo tipo non appartengono soltanto al passato, sono proseguite fino a tempi recentissimi.
Per avere testimonianza di cosa sia la strumentalizzazione ideologica dell’opera di Tolkien basta dare un’occhiata agli scritti del mentore di Oronzo Cilli. Non necessariamente gli articoli che si trovano in oscure riviste dell’ultradestra, ma i paratesti delle stesse opere di Tolkien. Ad esempio l’introduzione di De Turris alla maggiore raccolta di saggi di Tolkien, Il medioevo e il fantastico (2004), nella quale la celebre immagine tolkieniana dell’evasione dal carcere della realtà – riferita alle fiabe e alla narrativa fantastica – viene spudoratamente trasformata in «evasione dalla modernità». In questo modo si mettono in bocca a Tolkien le idee di Julius Evola, filosofo di riferimento di De Turris, e anche di una parte dell’estrema destra transitata dai Campi Hobbit.
Oppure si potrebbe ricordare la postfazione a La Cadutà di Artù (2013), che si risolve in una excusatio non petita volta a giustificare la lettura simbolista dell’opera di Tolkien, senza nemmeno un accenno al fatto che Tolkien stesso giudicava problematico quel tipo di approccio e ne scrisse in più occasioni.
O ancora si potrebbe citare proprio il testo che De Turris rivendica in apertura del libro di Cilli, cioè la sua introduzione alla raccolta di saggi ideologicamente orientati ‘Albero’ di Tolkien (2004 e 2007). In quelle pagine la poetica tolkieniana viene riletta in termini di Tradizione contro Modernità, cioè ancora ricalcata sul pensiero evoliano, con il quale l’opera del cristiano Tolkien non ha proprio niente a che spartire. Così come Tolkien non avrebbe avuto niente a che spartire con almeno uno degli autori della suddetta raccolta di saggi curata da De Turris, quel Gianluca Casseri simpatizzante di CasaPound, passato poi alla ribalta delle cronache per l’assassinio a sangue freddo di due cittadini senegalesi e il ferimento di altri tre, in quella che è ricordata come la strage di Firenze del 13 dicembre 2011.
Non si ribadirà mai abbastanza: con tutto questo, Tolkien e la sua opera non c’entrano niente. Da tali ammiratori vanno salvati. E questa è l’unica pace possibile.
A tal proposito serve a poco fare notare che l’interpretazione ideologicamente destrorsa o tradizionalista dell’opera tolkieniana trova esempi marginali anche all’estero. La particolarità italiana è il fatto che tale lettura sia stata presa sul serio. In nessun altro paese certe letture farlocche sono state accreditate; di conseguenza non hanno potuto pregiudicare più di tanto la ricezione e il dibattito sull’autore. Questo aspetto – piaccia o no – pertiene alla particolare storia culturale e politica italiana.
5. De Profundis
La terza parte del libro si conclude con un excursus sui film di Peter Jackson, sulla loro ricezione in Italia, e con una lunghissima, estenuante, rassegna di tutte le edizioni italiane delle opere di Tolkien, con raffronto delle differenze (perfino quelle nei colophon) tra una e l’altra.
C’è però un momento di involontaria ironia, quando si arriva alla traduzione e pubblicazione in Italia del Silmarillion e si incensa l’operato di Francesco Saba Sardi (1922-2012), «apprezzato traduttore» non solo del più celebre testo postumo tolkieniano, ma anche dell’epistolario, di Albero e Foglia e di altri scritti. L’effetto ironico nasce dal fatto che sulle sviste di traduzione di Saba Sardi gli appassionati di Tolkien si scambiano battute da anni. La più celebre viene proprio dalla traduzione del Silmarillion, dove «the Three», i Tre anelli elfici, in almeno due occorrenze diventano «l’Albero». Per non parlare della resa della traduzione di Tolkien dall’antico inglese dei famosi versi 89-90 del poemetto La Battaglia di Maldon, intorno ai quali ruota Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm: da quella traduzione Saba Sardi ha fatto sparire un “non”, ribaltandone così il significato e rendendo contraddittorio il testo di Tolkien. E si potrebbe continuare a lungo.
Saba Sardi è anche uno degli intervistati dell’ultima parte del libro di Cilli, quella dove – tanto per cambiare – l’autore lascia parlare gli altri, anzi, i “protagonisti”. L’intervista a Saba Sardi è però alquanto striminzita e insulsa. In generale, a fronte di una grande elencazione di titoli, curriculum e onorificenze, a nessuno dei quattro “protagonisti” viene chiesto davvero conto di alcuna delle scelte fatte, che hanno prodotto traduzioni ed edizioni in perenne stato di rattoppo o ristrutturazione, o ancora paratesti inadeguati e fuorvianti.
Ciò che però salta agli occhi è che gli intervistati ammettono candidamente di non conoscere poi così bene le opere di Tolkien. Quirino Principe, editor della prima edizione del Signore degli Anelli, che ha continuato a occuparsi dell’autore inglese per decenni, afferma di non essere uno specialista di Tolkien. Elena Jeronimidis Conte, traduttrice de Lo Hobbit, dice addirittura di preferire i film di Jackson ai romanzi, perché trova che Tolkien sia un autore ostico. Francesco Saba Sardi sostiene di avere realizzato, con le sue traduzioni, «opere di riscrittura», giacché lui era a sua volta «autore di opere letterarie», quindi poteva permetterselo; e questo forse per lui (requiescat in pace) avrebbe dovuto giustificare le licenze gratuite che si è preso, con annessi strafalcioni.
L’unico sincero appassionato di Tolkien sembra essere l’ultimo intervistato, Piero Crida, che però è l’autore delle prime copertine, quindi il meno responsabile di come è stata trattata la materia letteraria.
A conti fatti, queste interviste sono il degno suggello di un libro eclettico, frutto di un collezionismo compulsivo e di un lavoro certosino che vengono al tempo stesso ostentati e usati per fornire l’autoassoluzione a una compagine politico-culturale che tanto ha amato Tolkien quanto lo ha maltrattato. Una pretesa eccessiva anche per un superappassionato come l’autore, con già una carriera politica alle spalle (nonostante la giovane età, Oronzo Cilli è un ex-militante missino, ex-esponente di AN, poi del Popolo delle Libertà, ex-attaché di Gianni Alemanno). Perché la storia ci insegna che presto o tardi i nodi vengono al pettine, e non basta un po’ d’olio per scioglierli. I tempi sono maturi per un taglio netto.
In conclusione si potrebbe tornare all’introduzione del libro e riascoltare la voce se non di un protagonista almeno di un testimone interessato, che ringhia contro «l’arroganza dell’intellettualità nostrana passata e presente, che non ha il minimo motivo di esserlo, né morale né culturale» (p. 12).
Parole che in un colpo solo fanno venire alla mente due immagini: quella del ministro Mario Scelba che inveisce contro il “culturame”; e quella della lingua che batte dove il dente duole.
E forse anche una terza: la più celebre copertina del vecchio giornale “Cuore”.
«Si assiste ad una negrizzazione, ad un meticciamento e ad un regresso della razza bianca di fronte a razze inferiori più prolifiche. Naturalmente, dal punto di vista della democrazia in un tale fenomeno non si trova nulla di male, al contrario. Si sa dello zelo e della intransigenza dimostrati negli Stati Uniti dai fautori della cosiddetta «integrazione razziale», la quale non può che favorirlo ulteriormente. Peraltro, costoro non solo propugnano la completa promiscuità razziale sociale e vogliono che i negri abbiano accesso libero a qualsiasi carica pubblica e politica (per cui, di rigore, ci si potrebbe aspettare, in avvenire, anche un presidente negro degli Stati Uniti), ma non hanno nulla da eccepire che i negri mescolino il proprio sangue con quello del loro popolo di razza bianca.»
Julius Evola, L’arco e la clava, 1957.
«Ma nelle ossa porto l’odio dell’apartheid; e più di ogni cosa detesto la segregazione o la separazione fra Lingua e Letteratura. E non mi interessa quale delle due voi possiate considerare Bianca.»
J.R.R.Tolkien, Discorso di commiato all’Università di Oxford, 1959.
[1.: nei ringraziamenti in fondo al libro si trova il nome del legale della Tolkien Estate, l’avvocato Cathleen Blackburn, a cui l’autore si dichiara grato “per la disponibilità e l’attenzione”. Una disponibilità davvero particolare se la Tolkien Estate, rinomata per la sua rigidità, ha accettato questa copertina ingannevole].
ARTICOLI PRECEDENTI:
– Tolkien sotto l’albero: le strenne di Natale
– Tolkien, gli esperantisti e il sonno di Omero
LINK ESTERNI:
– Il Cerchio
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Ringrazio ancora una volta Wu Ming 4 per aver dedicato del tempo a leggere e scrivere del mio libro. Noto che, eliminando circa 2/3 di testo riferiti a persone e fatti che nulla hanno a che fare con il mio libro (né tanto meno con chi scrive), si riportano 5 delle 440 pagine che ho scritto e ben 4 delle 6 scritte da Gianfranco de Turris. Eppure quando WM parla del libro trova prima una parte che “fa emergere un’evidenza utile” e trovi:
“Ancora più interessante [che] è la terza parte del libro, quella che ricostruisce la ricezione dell’opera di Tolkien nella cultura italiana degli anni Settanta, e che contiene una lettura della vicenda «da una particolare prospettiva italiana», per riprendere Hammond e Scull della prefazione. Questo è il vero cuore del libro, dove si racconta di come in Italia Tolkien venne recepito dai movimenti alternativi, sia quelli della Nuova Sinistra sia quelli della Nuova Destra, in rivolta contro le vecchie istituzioni della cultura e della politica.”
Ringrazio ancora Wu Ming 4 per il tempo che ha concesso ad uno sconosciuto che non ha ancora trovato il tempo per ricambiare la cortesia. E nel frattempo, per giusta informazione de tantissimi lettori di questo apprezzatissimo sito, riporto una recensione legata più al testo e ai temi da me trattati.
http://tolkienitalia.net/wp/critica/recensioni/tolkien-e-litalia/