Alcune esperienze rimangono impresse nella memoria. E il Salone del Libro di Torino che si è appena concluso segna un passaggio importante. Per la nostra Associazione e anche per J.R.R. Tolkien in Italia. Il manifesto ufficiale del Salone era già tutto un programma: un volume che «scavalca» un muro con filo spinato. Una bambina è in cima e guarda al di là. Un mondo migliore? La fine di un incubo? Lo ha disegnato da Gipi – fumettista e illustratore italiano di caratura internazionale – e anche questo è tutto un programma.
Per capirlo si possono leggere le parole spese durante la conferenza di chiusura da Nicola Lagioia, il giovane direttore artistico di questa edizione, scrittore di successo e amante del rock: «Personalmente, che alcuni nodi venissero al pettine per ciò che riguarda il funzionamento di un certo modello e di una certa idea di cultura lo stavo aspettando da molto tempo. Questo Salone ha dimostrato molte cose che smentiscono in maniera sonora e completa una scuola di pensiero di cui evidentemente la gente è stanca e venendo qui al Salone ha detto chiaro e tondo qual è l’idea di cultura e l’idea di comunità in cui ripone speranze».
Ad esempio, non è vero che se alzi il livello il pubblico si restringe. Se alzi il livello, e lo fai in un’ottica di vera inclusione, e di vera partecipazione, può capitare che il pubblico smetta di essere pubblico, rompa il guscio odioso che separa la società dello spettacolo dalla vita reale, e (non più pubblico) si trasformi di nuovo in una comunità.
Un’idea di cultura, un’idea di comunità
Dietro il programma di quest’anno del Salone c’era veramente un’idea di cultura, un’idea di comunità. Certo, i dissidi con l’associazione degli editori (Aie) e l’assenza dei grandi marchi dell’editoria nostrana, che avevano preferito creare una feria tutto loro, che si è svolta a Milano un mese prima del Salone, hanno polarizzato gli schieramenti e creato due fazioni come mai era accaduto prima. Ma quel che è accaduto a Torino nei giorni della manifestazione culturale più importante in Italia va ben aldilà delle polemiche. Anzi, va al cuore del problema: l’idea di cultura che c’è dietro un evento dedicato ai libri.
Ciò che ha iniziato a succedere a partire dal sabato, è stato veramente impressionante, di quelle cose che tolgono il fiato, e a loro modo segnano un momento storico, o danno il polso di un momento storico. Mentre la gente faceva file interminabili, affollava gioiosamente, fino ai limiti della capienza il Lingotto, sentendo parlare Luis Sepúlveda, Daniel Pennac, Annie Ernaux, Yasmina Reza, Richard Ford, Giorgio Agamben, Amitav Ghosh, Eugeny Morozov, Luciano Canfora, Dacia Maraini, Paco Ignacio Taibo II, padre Alejandro Solalinde, Sonia Bergamasco, Goffredo Fofi, e così via… mentre accadeva tutto questo, la sera ha cominciato a scendere sulla città. A Mirafiori c’erano Alessandro Baricco e Francesco Bianconi che leggevano Furore di Steinbeck, e Mirafiori era piena di gente, c’era in contemporanea al Circolo dei Lettori Giordano Meacci che faceva un reading su Bob Dylan, e il Circolo era pieno di gente, e poi, alla Scuola Holden, c’era una festa lunghissima e bellissima dedicata a Twin Peaks e a Laura Palmer, e la Scuola Holden era piena di gente, c’era all’Ex Incet un concerto dedicato ai Velvet Underground, e l’Ex Incet (il villaggio notturno del Salone) era pieno di gente, e ha continuato a esserlo fino a quando, alle sei del mattino, ci sono state le lezioni di tango, e alle sei del mattino (dopo la lunga notte del Salone) l’ex Incet era pieno di donne e di uomini che salutavano il nuovo giorno ballando il tango.
Che cosa significa tutto questo?
Significa che mai come quest’anno il Salone del libro è andato – ed era questo il tema – «oltre il confine». Fuori dalle mura dallo spazio che ospitava gli stand, il Lingotto. E fuori dal concetto di letteratura come qualcosa di chiuso o di statico. Lo aveva già spiegato bene Lagioia: «La cultura è forza viva, trasformativa, che modifica il paesaggio circostante, che qualche volta cambia addirittura le carte in tavola, che non ti lascia come ti aveva preso». In questo senso il Salone ha «scavalcato» i confini, dalla lettura alla musica, dal teatro al cibo. Offrendo una serie di contaminazioni legate da un concetto comune: quello di «incontro».
Quel che c’era…
Ecco allora che al Salone – dentro e fuori – uno spazio importante è stato rivolto alla musica. Al Lingotto, oltre ai 424 stand, erano ospitate dieci case discografiche. Insieme, hanno dato vita a 1200 appuntamenti. C’era anche il cibo, la buona cucina, con lo Slow food, che era parte integrante della manifestazione. E un ruolo speciale è stato dedicato al «volto autentico degli Stati Uniti», con la sezione Another side of America: ospiti erano i librai indipendenti statunitensi. E c’era il cinema, con gli editori che hanno incontrato i produttori cinematografici e televisivi che sono alla ricerca di contenuti. «La presenza degli editori indipendenti è stata una delle chiavi che ci ha permesso di mettere in piedi un grandissimo Salone», ha detto il presidente della Fondazione del Libro Massimo Bray nella conferenza finale. C’era la Piazza dei lettori: 800 metri quadrati di proposte letterarie curate dai bibliotecari e dai librai, disposte intorno alla torre di François Confino, meta preferita per le foto ricordo della fiera. Vi ha preso parte Colti, il neonato Consorzio delle librerie torinesi indipendenti. Iniziativa per ora unica in Italia, è una libera associazione di 25 librerie, unite in uno sforzo collettivo per affrontare la crisi dell’editoria.
C’era il duplice omaggio a due veri e propri “classici” della letteratura internazionale ma da sempre snobbati dal Salone, come Stephen King e J.R.R. Tolkien. Per entrambi il 2017 rappresenta un anno di celebrazioni: King compirà 70 anni a settembre, mentre sono diversi gli anniversari per Tolkien, fra cui il 125° della nascita e l’80° de Lo Hobbit. Autori di culto in tutto il mondo, accomunati non soltanto dalla dimensione fantastica della propria produzione letteraria, ma dal fenomeno editoriale rappresentato, King e Tolkien sono fra gli scrittori con il più alto numero di libri venduti su scala planetaria. Le loro opere hanno accompagnato generazioni di lettori, le hanno appassionate, hanno forgiato il loro immaginario, superando il concetto del «fantastico» in senso stretto. C’era il fumetto che, come ha scritto su La Stampa Guido Tiberga, «è un modo di raccontare, non è cosa diversa dalla narrativa. Il fumetto è narrativa». La nona arte è stata protagonista di molti incontri con autori del calibro di Leo Ortolani, Zerocalcare, Milo Manara, Alfredo Castelli e molti altri. C’era la fantascienza con l’omaggio a Philip K. Dick e le letture di brani da Ma gli androidi sognano pecore elettriche?.
…e quel che non c’era
Di rado si produce quello di cui tanti di ritorno da Torino hanno parlato: qualcosa come una «mente centrale» (per dirla col poeta Wallace Stevens) in cui scrittori, editori e lettori s’incontrano sperimentando uno «stare insieme» che in sé è già «abbastanza».
Quel che non c’era sono state le retoriche fasulle sulla cultura, quelle del «con la cultura non si mangia», «per la cultura servono i manager», quelle che erano in bocca al ministro Franceschini giusto un paio di anni fa che diceva che per promuovere la lettura servivano i testimonial famosi, quelle di Ioleggoperché, quelle che non tengono in considerazione le comunità reali che esistono e che vanno solo ascoltate e coinvolte, quelle che non sanno confrontarsi in modo critico con le eredità, quelle dei libri flipbook, dei libri da vendere con gli sconti del 50 per cento, dei libri sintetizzati, degli spot sulla lettura che sembrano delle pubblicità, quelle degli oligopoli della distribuzione…
Nel suo discorso finale Lagioia ha usato toni e argomenti poco consueti e convenzionali, ha proiettato il piano in un ambito sovranazionale, ha trovato in quello «stare insieme» che si è prodotto nei corridoi e nelle sale del Lingotto, come negli eventi del Salone Off, un’idea di vita associata da tradurre in progetto culturale. Ha detto anche che la domanda per quel tipo di progetto c’è già, quello che manca – ma forse s’intravede – è l’offerta.
E a tutto questo filone positivo anche l’AIST ha dato il suo granello di sabbia, contribuendo al salto di Tolkien e delle sue opere oltre il confine…
ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Tolkien al Salone del Libro di Torino: ecco il programma!
– Leggi l’articolo La primavera AIST: i nostri eventi!
– Leggi l’articolo Tolkien al Salone del Libro di Torino 2017!
– Leggi l’articolo Stàltieri e Torbidoni: la musica in Tolkien è magia
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Non si può non concordare con questo pezzo di Roberto Arduini. Essere a Torino o a Milano quest’anno ha implicato due diverse scelte politiche, nel senso della politica culturale. L’arroganza dei grandi gruppi editoriali è stata punita dai numeri e dal clima che si respirava al Lingotto, perché a volte la storia va anche nel senso giusto, e la “lunga sconfitta” è costellata di qualche vittoria parziale 🙂
Non è affatto casuale che il cambio di gestione abbia coinciso con l’ingresso al Salone dei due grandi outsider King e Tolkien, appunto. E non è nemmeno un caso che l’unico gruppo editoriale di un certo peso presente con un grande stand fosse proprio l’editore di Tolkien: Giunti-Bompiani, che a quanto pare è più svincolato dalle logiche di potere prevalenti tra i big dell’editoria. A Tolkien questo non potrà che giovare. Avanti così.