Lewis, Tolkien e gli “italiani”
Il saggio di Edoardo Rialti su C.S. Lewis che pubblichiamo qui apparentemente esula dalla ricerca sull’autore a cui questo blog è dedicato. E forse non bastano i fiumi d’inchiostro versati sull’amicizia tra Lewis e Tolkien – anzi, tra “Jack” e “Tollers” – per giustificare questa scelta. I motivi infatti vanno cercati altrove.
È arcinoto che i rapporti tra i due autori furono complessi e nient’affatto lineari. Differenze caratteriali e poetiche, scelte di vita (sia personali sia legate all’impegno pubblico), condizionarono quella che rimase comunque per almeno un quindicennio una proficua amicizia e poi si allentò, trasformandosi in qualcos’altro, ma senza che il legame venisse mai reciso, fino alla morte prematura di Lewis nel 1963.
Tra le cose che accomunavano i due amici-colleghi c’era la conoscenza – ancorché non approfondita – dell’italiano. Lewis sapeva leggere l’italiano medievale e rinascimentale, perché si era formato sui grandi classici della letteratura di quell’epoca: Dante, certamente, ma anche Ariosto, Boiardo e Tasso.
Il saggio di Rialti illustra come proprio i grandi autori rinascimentali italiani, con la loro capacità di intrecciare trame corali e complesse, di dipingere scenari, esercitando magistralmente la fantasia, furono fonti di ispirazione per chi, quattro secoli dopo, decise di cimentarsi con il romance fantastico. E lo furono almeno quanto Spencer, che con il suo Faerie Queen (1590) è il riferimento letterario più scontato per autori di area anglosassone. Tanto più che è Lewis stesso a sostenere che quello di Spenser è in buona sostanza un tentativo di imitazione del poema cavalleresco italiano in salsa arturiana (absit iniuria), con risultati però meno brillanti dell’originale. La cosa interessante è che Lewis riconosce quell’eredità nell’opus magnum dell’amico-collega Tolkien, la cui stesura aveva seguito passo passo e di cui fu il primo recensore. Un’eredità che Lewis non a caso ripercorre a ritroso fino alla base comune di tutti i grandi poemi europei, medievali o rinascimentali, epici o allegorici (o crossover di entrambi, come nel caso di Spenser). Vale a dire l’Eneide di Virgilio.
Se dunque nel Signore degli Anelli confluisce una tradizione letteraria che parte dall’Eneide e arriva all’Orlando Furioso, passando per la Commedia dantesca, questo fatto non dovrebbe destare alcuno stupore. Come non stupisce che, al pari di Lewis, anche Tolkien conoscesse l’italiano e studiasse Dante. “…Quale medievalista, infatti, avrebbe potuto trascurare la lingua di Dante, Boccaccio e Petrarca, per non parlare di Boiardo e di Ariosto, i cui poemi epici cavallereschi sono stati spesso accostati alle sue opere?” (Tom Shippey, prefazione all’edizione italiana di J.R.R.Tolkien: La Via per la Terra di Mezzo).
Forse siamo talmente abituati a sentirci dire quanto Tolkien abbia tratto ispirazione dalle saghe norrene e dall’epica germanica, che ci suona originale ciò che invece è normale. E cioè che intellettuali oxoniensi con un background di studi classici fossero influenzati direttamente o indirettamente da autori che chiunque non soffra di una visione puerilmente campanilista sa essere, prima ancora che italiani, “trofei del genio europeo”, per parafrasare Lewis. Come tali almeno erano considerati e studiati negli anni Venti-Trenta.
Il saggio di Rialti ha dunque il merito di restituirci una visione realistica e di riportarci all’essenziale. Per poi chiudere (ma potrebbe essere una riapertura) sulla considerazione che in Tolkien “meraviglie dell’immaginazione, pathos epico, tensione spirituale trovano una nuova sintesi narrativa, addirittura superando i propri illustri predecessori”. Non si poteva dire meglio.
Buona lettura.