Dopo l’esordio al Salone Internazionale del Libro di Torino con tanto di sold out, in attesa di pubblicare il calendario delle presentazioni dell’ultimo libro di Wu Ming 4, la raccolta di saggi su Tolkien intitolata Il Fabbro di Oxford di Eterea Edizioni, proponiamo oggi ai nostri lettori la prefazione del volume, scritta dal saggista e traduttore Edoardo Rialti.
Sperando che questo assaggio stimoli il vostro appetito, e la curiosità vi porti a scoprire ogni saggio che compone il libro, vi auguriamo buona lettura!
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Edoardo Rialti
Il canto cessò. Frodo aprì gli occhi e vide Bilbo seduto sullo
sgabello e circondato da un gruppo di persone sorridenti e applaudenti.
«Vorremmo risentirla da capo», disse un Elfo… «Non possiamo
rispondere alla tua domanda, con una sola audizione!»
J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli
Sono numerosi i joyciani “ritratti dell’artista” nell’opera di Tolkien: pittori, orafi, giardinieri, scrittori, fabbri, menestrelli. Che si tratti d’infondere una luce divina in gemme elfiche o potare un’aiuola, narrare guerre che hanno sconvolto un mondo intero o comporre allegri nonsense per un bel bagno caldo, li accomuna un lavoro paziente, una cura silenziosa che può consumarli e ossessionarli, oppure aprirli all’umiltà e alla generosità, consegnando alle generazioni successive un’eredità che queste possono a loro volta contendersi, deturpare o custodire, condividere e arricchire.
Lo studio del suo corpus narrativo, così vasto e variegato, dai richiami filologici ai registri stilistici, dalla dialettica complessa con le fonti d’ispirazione o la narrativa e poesia contemporanea, richiede le medesime doti, e queste in fondo potrebbero essere sintetizzate nell’endiadi con la quale lo stesso Tolkien contrapponeva al coraggio orgoglioso e accecato di Beorhtnoth l’eroismo “del servizio e dell’amore”. Anche per George Steiner «la critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore. In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo un libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo… E, spinti da un qualche primario istinto di comunione, cerchiamo di comunicare agli altri la qualità e la forza della nostra esperienza. Vorremmo convincerli ad aprirsi a essa. È da questo sforzo che nascono le intuizioni più vere della critica». Quando ciò si verifica, la riflessione – in una certa misura – è capace di far ri-accadere l’esperienza artistica stessa, poiché ce la riconsegna come «un mondo nuovo, e il vecchio reso esplicito», come nel verso di T.S. Eliot: scorgiamo meglio quanto abbiamo già ammirato, e al tempo stesso il nostro apprezzamento si approfondisce in virtù d’uno sguardo nuovo, che si somma al nostro, quello di un altro lettore.
Secondo la celebre immagine di Victor Hugo, ci sono uomini-oceano, dall’opera parimenti immensa, eppure tale vastità, ricchezza e profondità costituisce al tempo stesso, nelle parole di Riccardo Bruscagli, un «segreto evidente», che non si esaurisce in una vita di studio e al tempo stesso lampeggia, indefinibile ma certo, al nostro primo incontro con essa; e come ebbe modo di sottolineare C.S. Lewis da par suo, con quella che per me rimane forse la più bella e ricca definizione del lavoro critico, «per strano che possa sembrare, ritengo che il compito principale di un interprete sia di cominciare analisi per poi lasciarle incompiute. Queste non hanno lo scopo di sostituire l’apprendimento immaginativo del poema. Il loro unico impiego è destare nel lettore anzitutto la sua conoscenza consapevole della vita e dei libri, nella misura in cui essa è rilevante, per poi suscitare in lui quegli elementi meno consci che soli possono offrire una piena responsione al poema». Chiunque ami in questo modo l’opera tolkieniana, con questo gusto per l’auscultazione attenta e rispettosa, condizione necessaria e costante per ogni raffronto e giudizio fondato, non può che accogliere la presente raccolta di saggi di Wu Ming 4 con grande interesse e gratitudine.
Il presente volume prosegue e approfondisce quanto già affrontato nel precedente Difendere la Terra di Mezzo, in parte dedicato a tratteggiare lo stato dell’arte della critica tolkieniana più significativa e al contempo a sgombrare il campo dalla nebbia di approcci interpretativi che hanno brandito Tolkien dopo averlo steso su un letto di Procuste per appiattirlo, mutilarlo e ridurlo letteralmente a pre-testo, con raffronti infondati e fuorvianti e una fondamentale sordità alla complessità, talvolta spiazzante della sua voce autentica (e giustamente Wu Ming 4 ribadisce anche qui come certe valutazioni snobistiche persino recenti di certa critica progressista in realtà leggano ancora Tolkien con le stesse categorie e lenti distorte di quella che definisce destra “simbolista”).
Gli interventi di Wu Ming 4 aspirano anzitutto a ripercorrere e attenersi al «tipico modo di procedere di Tolkien come filologo creativo, cioè costruttore di storie fantastiche su basi filologico letterarie», un intento nel quale riescono eccome. Basti pensare allo splendido percorso nello Hobbit come romanzo di formazione (che potrebbe dialogare benissimo a distanza col leitmotiv della filoxenia, la legge dell’accoglienza, che costituisce la cartina di tornasole dell’intera Odissea), laddove raggiungere l’effettiva maturità dell’adulto comprende un ribaltamento dei ruoli solitamente attribuiti ai generi, la necessità di tornare ai miti dell’infanzia e addirittura di indossare panni e atteggiamenti che sono il contrario di quanto abbracciato e vissuto fino al quel momento come identità costitutiva: «per possedere ciò che non possedete / dovete fare la strada della privazione. / Per arrivare a quello che non siete / dovete andare per la strada nella quale non siete», scriveva Eliot nei Quattro Quartetti, e l’agiato hobbit Bilbo Baggins, al sicuro dietro la porta della sua graziosa dimora da quelle «fastidiose scomode cose» che sono le avventure, per crescere dovrà farsi appunto scassinatore.
La presente raccolta è tutta importante e di gran pregio ma contiene alcune autentiche gemme: il celebre raffronto tra Sam Gamgee e i Tommies della Prima guerra mondiale si allarga alla contemporaneità letteralmente disarmante di un Faramir rispetto alle neo-mitologie militari contemporanee, pervertimenti dell’autentico eroismo cui “il fabbro di Oxford” oppone costantemente salutari antidoti, espliciti o impliciti, dal Beorhtnoth al Signore degli Anelli: «Tolkien mette in bocca ai personaggi letterari riflessioni che sono evidentemente frutto della sua disillusione di reduce di una guerra contemporanea. Le riflessioni che trae sono problematiche e contraddittorie, perché tengono assieme il valore dell’eroismo guerriero e la critica al bellicismo che da esso può derivare». Vi si ripercorrono, suggestivamente a ritroso, alcuni crocevia tra archeologia, filologia e narrativa dell’infanzia, antichi tumuli e giardini moderni, cortocircuiti che consentono di inquadrare meglio l’elusivo mistero di Tom Bombadil alla luce del (Peter) Pan di Barrie e Kenneth Grahame (1). La ricca analisi del cammino e dell’evoluzione di Aragorn dalle ombre opprimenti del suo passato fino alla piena assunzione del ruolo di monarca moderno (2) riesce addirittura a mostrarne le affinità con l’umiltà conquistata da Bilbo nel riconoscersi creatura molto piccola in un mondo ben più vasto: «Aragorn accetta di non essere l’eroe principale della storia e solo così può finalmente intraprendere il cammino verso la regalità». La galleria dei ritratti femminili mostra come Tolkien sappia approfondire e al tempo stesso audacemente ribaltare alcuni tòpoi su fate incantatrici, fanciulle guerriere, principesse elfiche. Spicca soprattutto il magnifico studio sull’insinuarsi dell’autorità burocratica «della società disciplinare moderna, per dirla con Foucault» nella Contea infettata da Sharkey-Saruman e le sue diverse strategie rispetto alla corruzione di Rohan («se per controllare una società feudale occorre influenzare il monarca, per prendere il controllo di una società borghese occorre impadronirsi del potere economico»), così come sulla rivolta degli Hobbit, che non si limiterà a ristabilire le condizioni precedenti della loro «mezza-repubblica, mezza-aristocrazia».
Analisi, percorsi, raffronti che possiedono tutti il tratto distintivo d’ogni critica riuscita, quello di indurre nel lettore il desiderio di tornare alle pagine, alle scene citate e studiate, con occhi ed entusiasmo rinnovati, mostrando come l’opera tolkieniana convogli e fondi tradizioni e sfide letterarie stratificate e complesse, che vi assumono una luminosità e intensità nuova, come l’Alessandria evocata da Kavafis nelle memorie di Ungaretti: «allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere». Per C.S. Lewis i meri nomi di Galadriel o Glorfindel «incarnano quella penetrante, alta elfica bellezza che nessun altro scrittore di prosa ha colto così tanto», ed è significativo che, per la sensibilità di Tolkien, ciò avesse la paradossale pretesa di rendere giustizia a una presunta verità originaria, ormai coperta di incrostazioni e ruggine, offuscata se non dimenticata.
Ogni efficace e autentica analisi particolare, in virtù del suo rigore e dei limiti che si auto-impone, costituisce una finestra spalancata su un paesaggio assai più vasto, o, per riprendere la celebre immagine dello stesso Tolkien nel suo saggio spartiacque su Beowulf, una torre da cui spingere lo sguardo fino al mare: gli scritti qui raccolti sanno additare con finezza e persuasività alcuni orizzonti gnoseologici, culturali e politico-sociali di grande importanza, basti pensare al leitmotiv tolkieniano (dolorosamente caro in quegli stessi decenni anche a Pasolini o Cristina Campo) per cui perdere delle lingue vuol dire perdere mondi interi, senza i quali affrontiamo con maggiore incertezza anche le sfide del presente.
In Difendere la Terra di Mezzo, Wu Ming 4 mostrava come gli interrogativi al cuore delle opere di Tolkien sorgessero dalle medesime sfide conoscitive ed esistenziali di una Simone de Beauvoir. Qui, nello sviluppo dei testi stessi o nelle citazioni in exergo, il creatore di Hobbit ed Ent dialoga con Robert Graves, Albert Camus, George Orwell, Simone Weil (3). Ciò in virtù d’una ammirevole commistione di preparazione filologica e conoscenza della letteratura e del contesto sociale e culturale contemporaneo a Tolkien (comprese le tattiche di guerriglia) il cui impiego congiunto è capace di relegare tante raffazzonate letture di supposti critici nostrani (che spesso non sanno neppure leggere Beowulf o Njáll in originale, né conoscono la letteratura europea del primo ‘900) tra le bandiere rattoppate, per quanto rumorosamente agitate. Qui c’è un arazzo unico, che rispetta la realizzazione e la stoffa dell’originale. Anche il dialogo a distanza con l’analisi tomista di Claudio Testi costituisce un passo e un contributo importante, in Italia e non solo, che si inserisce nella complessità di un dibattito autentico sullo sfondo teologico dell’immaginazione tolkieniana, sulla specificità del suo specifico cattolicesimo, ereditato con un doloroso “mandato familiare” e a sua volta filtrato da storia, formazione e sensibilità personali (4). Si tratta – appunto – di un tema troppo vasto. Mi limito solo ad accennare che le riflessioni di Wu Ming 4 sull’etica dei personaggi tolkieniani mi hanno spesso fatto pensare a quanto la già citata Simone Weil scrisse sull’eroismo autentico nell’Iliade: «talvolta un uomo trova così la sua anima mentre delibera con se stesso, quando cerca, come Ettore davanti a Troia, senza l’aiuto degli dèi o degli uomini, di far fronte da solo al destino. Gli altri momenti in cui gli uomini trovano la propria anima
sono quelli in cui amano».
Per concludere, questa pregevole raccolta, che suscita nel lettore tante curiosità e nessi inaspettati ma fecondi, ricca per contenuti originali ed efficacia dello stile, è tutta impostata sulla necessità di riconoscere certamente gli archetipi che agiscono in un testo, ma anche, se non soprattutto, la specificità della loro resa e variazione narrativa, il quid tolkieniano, lo “scarto spiazzante” tra l’immagine culturale e letteraria di riferimento (incline a farsi stereotipo) e l’irriducibilità e originalità di un Aragorn, o un’Éowyn, riflessi dell’irriducibilità e originalità del loro cantore-creatore stesso, quell’anonimo menestrello al Campo di Cormallen, capace di far ridere e piangere rievocando «regioni ove delizie e dolori sono un’unica cosa e le lacrime sono il vino del godimento».
Una simile operazione critica è anzitutto una grande e importante lezione di ascolto, che dimostra come leggere costituisca a sua volta una sfida costante dell’accoglienza intellettuale e morale, e che quanto bussava alla porta di Bilbo nelle vesti di quel «vagabondo odinico che è Gandalf» (Tolkien, Lettere) si presenta anche sulla soglia interiore di chiunque desideri esporsi davvero alla forza e alla ricchezza di quel “visitatore” (George Steiner) che è una grande opera letteraria.
Note:
1. Testo ed episodio cui anche C.S. Lewis si sarebbe significativamente richiamato per illustrare nientemeno che il Numinoso ne Il problema della sofferenza.
2. Percorso che ha parimenti ricordato a chi scrive le riflessioni dello stesso Lewis in A Preface to Paradise Lost sul cammino doloroso di Enea per non ridursi «al fantasma di Troia».
3. In una parentesi si cita anche Alessandro Manzoni, accennando a una differenza che ritengo abbia più lo scopo di far emergere per contrasto una specificità di Tolkien che abbozzare un raffronto effettivo su provvidenza e giustizia terrena, il quale a sua volta necessiterebbe gli stessi strumenti critici e modalità richiamati in tutto il volume, se si vuole evitare il rischio di quell’astoricità appiattente e nebulosa da qui l’autore aveva già messo in guardia in Difendere la Terra di Mezzo. Lo stesso Manzoni, proprio su taluni temi sociali ed economici affrontati nel saggio sulla liberazione della Contea, aveva dato prova d’una sensibilità e intelligenza e persino un’audacia che, con i dovuti strumenti e distinguo, potrebbero portare a una comparazione suggestiva.
4. Complessità “non pacificante” che andrebbe giustamente estesa anche alla produzione di altri Inklings, in primis C.S. Lewis e C. Williams, a loro volta troppo facilmente ridotti, ideologicamente branditi o rigettati. Si pensi solamente allo speculare e opposto cortocircuito immaginativo che per Tolkien è stato l’«Eala Earendel» dell’inno cristiano di Cynewulf e il verso “pagano” di Longfellow «Piangete tutti perché Balder il bello è morto» per l’irruzione della Gioia nella poetica di Lewis.
ARTICOLI PRECEDENTI:
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