Il 15 febbraio l’AIST e Istituto Filosofico Studi Tomistici hanno organizzato a Modena un Tolkien-Lab sul tema “Come e perché ritradurre Il Signore degli Anelli” con ospite Ottavio Fatica, traduttore e poeta che per Bompiani ha ritradotto dopo 50 anni il capolavoro di J.R.R. Tolkien, che ha così concluso il suo mini-tour emiliano dopo gli incontri di Parma e Piacenza. All’incontro era presente anche Giampaolo Canzonieri che è il responsabile incaricato dalla nostra Associazione per la consulenza nel progetto di traduzione. Viste le moltissime richieste dei lettori amanti di Tolkien, pubblichiamo ora un resoconto, firmato dal padrone di casa, Claudio Antonio Testi, che è basato sui suoi appunti e non è stato rivisto dal dott. Fatica: potrebbe quindi contenere qualche imprecisione imputabile unicamente a Testi.
Il resoconto
Per me è stata una giornata non solo piacevole ma anche estremamente stimolante sul piano intellettuale. Ho avuto infatti il piacere di conoscere di persona il dottor Fatica e di apprezzarne la vasta cultura (ci ha descritto la sua biblioteca di oltre 25.000 volumi) e la sua profonda sensibilità letteraria. La sua conferenza, inoltre, mi ha fatto capire quanto sia complesso e difficile il mestiere del traduttore, che deve rendere in una lingua diversa ciò che il madrelingua intende leggendo un certo testo.
Devo ammettere che in un primo momento, quando in AIST si valutò di riproporre una nuova traduzione del Signore degli Anelli avevo qualche perplessità, vista anche la buona riuscita della precedente. Ora, alla luce di quanto ho sentito e anche dei dibattiti che si sono avuti in rete, non ho più dubbi sul valore culturale di questa operazione, infatti:
a) Non esiste nessun classico che non abbia avuto ritraduzioni in cinquant’anni e se Tolkien è un classico, meritava una ritraduzione (che spero da parte mia non sia l’ultima);
b) Non si erano mai viste tante discussioni in cui si comparava la traduzione all’originale, e questo ha fatto e farà ancor di più capire l’originale: a questo servono le diverse traduzioni.
c) La nuova versione era stata attaccata ben prima della sua pubblicazione in quanto “maoista” e “in foggia lgbt”: chiunque l’abbia letta potrà ben capire quanta ideologia e malafede ci sia stato in quegli attacchi. Intendiamoci, ben vengano le critiche, ma per essere costruttive dovrebbero essere circostanziate e se vogliono non essere ideologiche, dovrebbero usare la stessa lente di ingrandimento non solo sulla versione di Fatica, ma anche sulla precedente la quale, dopo cinquant’anni, contiene ancora macroscopici errori addirittura nei titoli!
Divido per temi tutto il lungo e interessante intervento di Ottavio Fatica.
Sul ‘mestiere’ del traduttore
Fatica ha iniziato ammettendo che conosce molto degli Inklings (C.S. Lewis lo apprezza moltissimo come saggista, apprezza Poetic Diction di Owen Barfield e ama Charles Williams, che vorrebbe vedere ripubblicato) per quanto di Tolkien non abbia letto tutto (ha letto Lo Hobbit, Il Silmarillion e Albero e Foglia e per tradurlo naturalmente Il Signore degli Anelli). Ha poi citato alcuni passi di Marcel Proust, Walter Benjamin e Simone Weil riguardanti il difficile mestiere del traduttore. È poi entrato sul tema della giornata e ha detto che una cosa che lo ha stupito di Tolkien è stato il fatto che la sua narrativa non deraglia mai, ma è molto coerente. Ha quindi richiamato due brani delle lettere ove Tolkien scrive che la sua opera è fondamentalmente cattolica e paragona la situazione di Frodo al “non indurci in tentazione” del Padre Nostro, passo recentemente ritradotto con “non abbandonarci alla tentazione”. La Conferenza Episcopale ha recentemente ritradotto quel passo. In merito alla nuova versione della preghiera, ha spiegato che il difficile compito del traduttore è tenere per buono ciò che ti trovi davanti e tradurlo così com’è, senza adattarlo alle proprie convinzioni. La traduzione è uno specchio.
Sulla traduzione precedente
Fatica ha poi fatto una breve storia della traduzione italiana de Il Signore degli Anelli, confermando ammirazione per quanto riuscì a fare una giovane sedicenne in così poco tempo. Si è però detto stupito che nell’ultima edizione viene detto che sono stati corretti alcuni refusi e questo ancora dopo cinquant’anni! Non solo, ma nota che ce ne sono ancora alcuni clamorosi, come ad esempio il titolo “Percorrendo la contea” in cui la parola “scouring” è stata presa erroneamente per “scouting”. Ci sono molti casi anche di sparizione dalla traduzione di intere frasi che non danno modo al lettore italiano di cogliere alcune sfumature oppure causano incongruenze logiche nelle azioni dei protagonisti come «I am wounded with knife, sting, and tooth, and a long burden» (“The Return of the King”, book VI, chapter 7, Homeward Bound), che descrive bene la pesante condizione di Frodo e dà senso alla frase successiva «Where shall I find rest?»; «The blade turned on the hidden mail-coat and snapped» (RR, c.8, The Scouring of the Shire) quando Saruman tenta di uccidere Frodo, ma la sua lama va a sbattere contro la sua cotta di maglia e si spezza… il lettore italiano legge solo che Saruman impugna il pugnale per colpire Frodo e che poi quest’ultimo chiede agli altri hobbit di non vendicarsi. Non si capisce perché un personaggio ferito voglia salvare il suo attentatore, a meno che non si tratti di una sorta di sindrome di Stoccolma. Lo stesso vale per Sam nelle ultimissime frasi del libro, quando è ancora indeciso, manca la frase «and he went on» poco prima del famoso «Well, I’m back» e questa sfumatura se ci fosse mostrerebbe al lettore italiano come Sam fino all’ultimo sia attratto dall’idea di raggiungere Frodo e Bilbo, non di tornare a casa… Poi ci sono vere e proprie sviste come «misery» preso al posto di «mistery», «mirk» tradotto sempre come fosse «mark» oppure “betulla” (birch, che non c’è nell’originale) usato al posto di “faggio” (beech) non una volta sola ma per tutto il libro.
Sui nomi
Si è poi detto stupito della mole di studi e glossari che esistono su J.R.R. Tolkien sia in rete che in volume: sono cose, dice Fatica, che si fanno soltanto su grandi autori del Novecento come James Joyce e quindi vuol dire che Tolkien ha una complessità linguistica simile. Per lui infatti anche un inglese che legge Il Signore degli Anelli incontra delle difficoltà e probabilmente deve leggere il volume con il dizionario accanto. ad esempio, Tolkien usa alcuni apax, cioè parole che usa una sola volta, come la parola inglese «whithersoever» che risale al Trecento: per renderla al meglio, Fatica l’ha tradotta con “ovechessia”, termine usato da Giovanni Boccaccio.
Tolkien sfida spesso i suoi lettori inglesi, li stuzzica continuamente ad usare l’ingegno. Un altro esempio di complessità linguistica è il nome ‘Dunharrow’, in cui il lettore medio inglese leggerebbe subito “harrow” come “erpice”. Invece, il suo etimo è da Tolkien legato a un tempio pagano sopra le colline, “heathen fane”, come spiega nella Guide ai traduttori. Infatti “fane” vuol dire “fano” che in italiano significa appunto “tempio sacro”: per questo Fatica ha tradotto ‘Valfano’. Lo stesso dicasi per “Cotton”, che non significa ‘cotone’ (come anche un lettore medio inglese potrebbe pensare), ma deriva da Cottage e il suffisso -ton per town (come Brighton): Fatica però ha dichiarato di aver perso la sfida non trovando in italiano una equivalente (avrebbe voluto Casipoli). Chissà cosa avrebbe pensato Tolkien del termine italiano “Vocabolo”, che in alcune zone dell’Italia centrale vuol dire “frazione di paese”. Secondo Fatica lo avrebbe usato subito! Lo stesso potrebbe valere, sempre in italiano, con le parole “postribolo” (che Tolkien non avrebbe mai usato perché sconcia!) e “triboli, tribolazioni, tribolare” nel senso di «sofferenze, dolore». Sicuramente, lo scrittore inglese avrebbe inventato qualcosa come un luogo che si chiamasse «Postriboli» che non non avrebbe significato “postribolo”, ma post-“triboli”, cioè “dopo le tribolazioni”!!! Ecco Tolkien faceva questo con l’inglese.
Fatica poi motivato la sua scelta di tradurre “farthing” con “quartiero” e “Rivendell” con “Valforra”: per quest’ultimo, l’idea gli è venuta anche guardando la resa delle traduzioni in francese (tre traduzioni: Fondcombe, Combe Fendue e Fendeval per Lo Hobbit), gallego (Valfendido) e portoghese (Valfenda). In tutte c’è il concetto ripetuto di “valle” e di “fenditura tra le rocce”. Queste sue traduzioni possono anche non piacere, tutte le scelte sono opinabili, ma l’importante è capire che sono motivate da qualcosa, dalla linea coerente che seguiva anche l’autore. Anche ai lettori inglesi ad esempio la parola “farthing” risulta comica quindi l’equivalente italiano deve risultare un po’ buffo! Tolkien poi è strampalato con i numeri: se deve scrivere “vagano per molte ore”, lui scrive «per molte volte mezz’ora» che è una incongruenza; su ‘Undicentesimo’ per “eleventy” (parola che in inglese non esiste), ad esempio, Fatica si è detto consapevole del suo diverso significato in latino (‘undecentesimus’ vuol dire novantanove): per questo ha lasciato la ‘i’ per distinguerlo.
Ha anche parlato del famoso “Forestali” perché questo indica appunto il mestieri di chi fa la guardia dei boschi: e ha detto che all’inglese ‘ranger’ rimanda immediatamente a queste figure.
Nemmeno nei nomi Tolkien è coerente ed è quindi impossibile fare il calco dei nomi dei protagonisti: Bilbo e Frodo sono nomi hobbit (anche se il secondo deriva dal norreno froða); Peregrin detto Pippin è inglese ed è la varietà di una mela, Merry deriva da Meriadoc che è gallese, Baggins è tradotto dal Westron, Took è inglese, ma deriva da un nome hobbit, Samwise è versione anglicizzata di un soprannome hobbit, mentre Gamgee è inglese, ma Tolkien raccomanda di considerarlo “senza significato” e trattarlo come un nome normale. Come si fa a tradurre con coerenza tutto questo? Fatica ha poi fatto un grandissimo mea culpa perché ha ceduto alle pressioni di lasciare Baggins in originale, anche per la resa del nome nei film di Peter Jackson, mentre in tante altre traduzioni estere è stato tranquillamente tradotto. Tolkien consigliava di renderlo nella lingua di destinazione perché quel cognome è una traduzione in inglese del termine hobbit e faceva intuire il significato in Sacchi, Sacconi, Saccocce, Borse o anche Scarsella. Io gli ho chiesto come lo avrebbe tradotto, ma lui non ci ha pensato, per quanto «Sacconi» non gli dispiacerebbe e magari nelle future ristampe…
Ha poi fatto notare che Samwise vuol dire ‘sempliciotto’, e per questo lo ha reso con “Samplicio”. Questo perché anche qui Tolkien gioca con i significati dei nomi dei protagonisti: Frodo e Sam sono una sorta di Don Chisciotte e Sancio Panza e i loro nomi infatti significano “uomo savio” e “uomo semplice”. Molti lettori invece sono rimasti attaccati non a Samwise, ma alla traduzione “Samvise” che non ha alcun significato in italiano…
Ha poi detto che in generale non capisce tante forti reazioni al cambio nei nomi e ha ricordato che quando nella sua gioventù “Nembo Kid” divenne “Superman” non gli cascò il mondo addosso. Ha poi fatto simili riflessioni sulle sfide lanciate da Tolkien ai suoi lettori con “Merry” che fa ridere un inglese – lui l’avrebbe tradotto Felice o addirittura Giocondo, detto Giò – e il cattivo “Sharkey” – dove il lettore inglese legge subito “squaletto”, ma per Tolkien viene dal linguaggio nero sharkû che significa “vecchio” – e ha scherzosamente precisato che “Pipino” non l’ha lasciato perché troppo sconcio per lo scrittore per cui lo ha sostituito con ‘Pippin’ – ma anche qui Tolkien gioca col nome che in inglese è una piccola mela gialla o rossa da dessert e lui l’avrebbe tradotto Melozzo!!!
Riguardo a Strider, da lui reso con “Passolungo” ha ammesso che la traduzione ideale gli è venuta in mente dopo e sarebbe “Falcante”: persino Tolkien cambiò idea all’ultimo e proverà a chiedere a Bompiani di modificarla nel volume unico. Infine, ha detto che si è molto divertito a tradurre i cognomi hobbit elencati durante la festa di compleanno di Bilbo, ma che è dispiaciuto perché Bolger non è stato tradotto in Bolgeri, un po’ stonando nella lettura: è stato Tolkien a scrivere che «the Bolger family (a hobbit-name not to be translated)»…
Sulle Poesie
A questo punto ha iniziato a trattare la traduzione delle poesie. In Tolkien ne ha trovate alcune ritmate come filastrocche, altre più impegnative. Ha anche detto che nella poesia dell’Anello le rime sono rimaste: ad esempio tra cielo e celano c’è la rima è pura e italiana (Pascoli fa questo tipo di rime, diverse dalle rime da filastrocca). ‘Fato crudele’ lo ha così tradotto per mantenere la rima e lo stesso per vincerli con avvincerli (quest’ultimo termine del resto non è una ripetizione perché deriva da ‘vinciri’ e non da ‘vincere’).
Inoltre ha notato che in Tolkien spesso ci sono versi nascosti nella prosa, proprio come avviene in: Dickens (ad esempio quando muore Nell in Oliver Twist), Melville (in Moby Dick – che come Tolkien parte picaresco e diventa epico – Acaab a un certo punto fa un assolo ispirato a King Lear), Calvino (lo fa sistematicamente nelle Città Invisibili). Fatica ha anche notato che a un certo punto Tolkien pare citare Ariosto quando la salma di Théoden viene portata via dal campo di battaglia usando dei ‘spear-truncheons’ (“tronconi di lancia” che si ritrovano anche nell’Orlando Furioso e che sono stati così tradotti in un’edizione scozzese che Fatica ha consultato). Del resto, per lui Éowyn è Corinna.
Sulle descrizioni di percorsi e paesaggi
La forza narrativa di Tolkien è impressionante: anche le azioni belliche sono ben violente e condensate. Per l’epoca si trattava di una prosa truce, erano brani che colpivano i lettori inglesi. Ma la parte che narrativamente Fatica ha più apprezzato sono quelli dei paesaggi: sono talmente particolareggiate che gli hanno fatto venire in mente Niggle nella sua ricerca di dettagli. Con queste Tolkien pare quasi voler «far coincidere la mappa col territorio», ma sappiamo che, come dicono Eco e Borges, ciò non può accadere. È un concetto molto importante da capire. La bravura di Tolkien si vede anche nel far digerire ai lettori più giovani queste descrizioni che normalmente potrebbero annoiarli. Lo stesso Fatica è dovuto ricorrere a una quantità enorme di termini italiani che neanche lui usa: forre, dirupi, balzi, calanchi, gravine, burroni, seracchi, baratri, strapiombi, precipizi, falesie, cenge, orridi… Tolkien lavora su tutti questi termini e anche su quelli militari.
Fatica ha particolarmente amato tradurre le difficili descrizione dei percorsi (specie degli Hobbit in Mordor) e però si è stupito come possano essere sopportate da un pubblico giovane, perché impegnative e senza azione dato che alcuni suoi paesaggi sono ardui come quelli di Thomas Hardy, a dimostrazione che Tolkien ha una marcia in più rispetto ai soliti fantasy.
Molte interessante inoltre l’osservazione di Fatica sull’uso coerente e complesso della punteggiatura o dei maiuscoli e minuscoli in Tolkien, che è mimetica al testo. È un uso originale e coerente nel testo: in tanti anni non avevo mai sentito questo rilievo, nemmeno all’estero.
Incongruenze
Fatica ha anche notato alcune incongruenze in Tolkien, come ad esempio quando usa le parole ‘dryad’, ‘train’ o ‘gerontius’, ‘babel’ e ‘ancient of days’, che si rifanno a mitologie e culture che non dovrebbero essere del mondo della Terra di mezzo. Ha inoltre rilevato che Tolkien, pur dicendo di non amare il francese, usa spesso parole francesi o ispirate al francese, come ‘alas’, ‘sortie’ ‘poisson’. Usa addirittura un francesismo di concetto usando il termine per il clou usato dai soldati francesi nella Prima Guerra Mondiale.
Fatica ha poi ammesso di non aver troppo apprezzato l’attenzione di Tolkien alle lingue inventate, forse lui è stato uno dei pochi ad averla sviluppata al meglio, anche se non perfettamente, perché le lingue sono interconnesse con il resto del mondo e con la storia del pianeta.
Ha inoltre notato che Tolkien usa “nightshade’ nel senso di oscurità che non esiste in inglese, mentre a un lettore inglese il primo significato che gli viene in mente è il veleno Belladonna, a dimostrazione del gusto che ha Tolkien nel lavorare sulle parole e sugli effetti che hanno nel lettore.
C’è una incongruenza narrativa! Nel capitolo del repulisti della Contea, a un certo punto Cotton parla delle ruberie che fanno i furfanti: «‘gathering’ as they call it». Le virgolette sono qui superflue e poi Frodo qualche pagina prima parla proprio di questo: «The ruffians are on top, gathering, robbing and bullying…». Come faceva a saperlo?
Ha poi concluso dicendo che ha particolarmente ammirato il modo con cui Tolkien fa parlare Gollum e ha tornato a citare Proust, per il quale i doveri e i compiti di un traduttore sono quelli di uno scrittore e viceversa.
ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Università, Ottavio Fatica a Parma e Piacenza
– Leggi l’articolo Aragorn il Forestale, uno studio filologico
– Leggi l’articolo Come ascoltare il suono delle poesie in Tolkien
– Leggi l’articolo Fatica: «Tolkien come Kipling e Shakespeare»
– Leggi l’articolo La versione di Fatica: contributo per una messa a fuoco
– Leggi l’articolo Ancora uno sforzo se volete essere tolkieniani
– Leggi l’articolo Esce oggi la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello
– Leggi l’articolo Bompiani: le novità tolkieniane ottobre 2019
– Leggi l’articolo La traduzione della Compagnia a ottobre
– Leggi l’articolo Ritradurre Il Signore degli Anelli: l’intervista
LINK ESTERNI:
– Vai al sito di L’editore Bompiani: «Nessuna lettura ideologica di J.R.R. Tolkien»
.
walter benjamin non william