Leggendo il catalogo della mostra Tolkien: Maker of Middle-Earth, tenutasi a Oxford da giugno a ottobre del 2018, in uscita oggi in Italia per Mondadori (Tolkien: Il creatore della Terra di Mezzo, 416 pagine, 45 euro, trad. di Stefano Giorgianni), si ha a tratti la sensazione di violare uno spazio privato. Una grande quantità di materiale appartenuto al celebre Professore viene messa in mostra per i fan della Terra di Mezzo. È una cosa che accade soltanto per gli autori di culto, e non ci sono dubbi che J.R.R. Tolkien sia tra questi, dato che con il passare dei decenni la sua narrativa ha incontrato un apprezzamento sempre più ampio da parte di un pubblico quanto mai eterogeneo. Per questo, sfogliando il catalogo viene da chiedersi cosa avrebbe pensato di una mostra su di sé. La risposta è che probabilmente ne sarebbe stato al tempo stesso lusingato e irritato. Lusingato, perché sono pochi gli scrittori a cui siano state dedicate esposizioni come questa. Irritato perché era profondamente avverso alla via biografica alla letteratura e contrario al culto dell’autore, ritenendo quest’ultimo un pessimo servizio alla letteratura stessa. In una lettera del 1971 scriveva:
«Una delle mie convinzioni più radicate è che l’indagine sulla biografia di un autore (o su altri aspetti della sua “personalità”, come quelli che vengono racimolati dai curiosi) sia un approccio totalmente inutile e sbagliato alla sua opera, e specialmente a un’opera d’arte narrativa, per la quale l’obiettivo che l’autore cercava di centrare era che venisse apprezzata in quanto tale, che fosse letta con piacere letterario»1.
Già nel 1958, a pochi anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, Tolkien si era espresso in termini ancora più netti:
«Non mi piace riferire “fatti” su di me che non siano “nudi” (e che in ogni caso sono altrettanto rilevanti per i miei libri quanto gli altri dettagli più succosi). Non semplicemente per motivi personali; ma anche perché sono contrario alla tendenza contemporanea della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e artisti. Questi infatti distraggono l’attenzione dall’opera dell’autore (se l’opera è in effetti degna di attenzione), e finiscono, come si vede spesso, per diventare l’interesse principale. Ma solo il proprio angelo custode, o Dio stesso, potrebbe dipanare le effettive relazioni fra i fatti personali e l’opera di un autore»2.
Si potrebbe aggiungere che quando scriveva narrativa, Tolkien si sentiva affine agli autori medievali che studiava da accademico, spesso anonimi estensori di tradizioni poetiche tramandatesi oralmente per secoli. «Ho sempre avuto la sensazione non di “inventare”, ma di annotare ciò che era già “lì”, da qualche parte»3, scriveva riferendosi alla propria attività di mitopoieta. L’immagine romantica dell’autore-genio, dell’autore-oggetto-di-culto, non gli è mai appartenuta. Questo non significa, ovviamente, che non fosse disposto a riconoscere la perizia, il talento, l’inventiva, del singolo autore al lavoro su un’opera nuova, attraverso l’uso creativo delle fonti. Semplicemente per lui l’autore non doveva essere anteposto all’opera stessa, la quale, peraltro, se di un qualche valore, gli sarebbe sopravvissuta, guadagnando legittima autonomia, come una figlia ormai adulta. Non era quindi propenso a vedere sviscerata ed esposta la propria vita fin nei minimi dettagli personali e familiari.
Nondimeno, nel suo caso ci sono almeno tre argomenti a favore dell’approccio biografico, che trovano conferma proprio nelle pagine di questo catalogo.
Il primo è che Tolkien ha pubblicato poco in vita: non molti lavori accademici e davvero poche opere narrative, vale a dire appena due romanzi, tre racconti, e una raccolta di poesie. Dunque una mole considerevole di materiale interessante ha dovuto essere attinta dai suoi archivi personali, per essere pubblicata postuma. Lo stesso vale per l’epistolario, del quale a suo tempo è stata pubblicata soltanto una selezione, priva delle lettere inviate a Tolkien, alcune delle quali fanno invece parte di questo catalogo e rivelano aspetti peculiari dei suoi rapporti con il mondo esterno.
Il secondo argomento è che – essendo stata la narrativa una semplice passione per decenni e poi tutt’al più un secondo mestiere – molto spesso l’espediente per la scrittura era offerto a Tolkien proprio dalla vita privata. Molte delle sue storie nascevano dai racconti serali inventati per i quattro figli. Esiste dunque una dimensione intima della sua narrativa che – a maggior ragione nel caso degli inediti – è strettamente connessa alle relazioni personali. Sotto questo aspetto, dalle memorie famigliari emerge la figura di un genitore moderno, che «univa paternità e amicizia», trascorrendo parecchio tempo con i figli, coinvolgendoli nelle sue storie fantastiche, e prendendo le loro «osservazioni e domande infantili con assoluta serietà»4. La capacità di restare in sintonia con l’infanzia – anche la propria – e di non gettare su di essa uno sguardo paternalistico è senz’altro una delle chiavi della sua efficacia narrativa.
Il terzo argomento è che Tolkien amava disegnare e dipingere – una passione trasmessagli dalla madre e rafforzata a scuola – ed era un illustratore dilettante di un certo talento. Aprire il “Book of Ishness”, osservare i suoi acquerelli, i disegni a penna o anche solo i bozzetti, dà la misura di quanta parte avesse l’arte figurativa nella sua attività di creatore di mondi; per non parlare della calligrafia, in particolare quella elfica. Un’arte, la sua, per lo più privata, ma con un tratto distintivo che l’autrice dei testi a commento non esita a definire “surreale”, accompagnato da un uso del colore per il quale McIlwaine spende l’aggettivo “psichedelico”.
In realtà c’è un quarto argomento che sostanzia il taglio della mostra oxoniense. È l’affascinante mistero rappresentato da Tolkien stesso: il contrasto tra vita e opera assai più che la loro concordanza. Da un lato un’esistenza borghese, estremamente regolare, conforme alle aspettative sociali e alle convenzioni; dall’altro una “evasione” creativa sconfinata. Quanto più costui fu lontano dalla mondanità, politicamente disimpegnato, devoto alla propria fede cattolica, tanto più fu spregiudicato nell’uso dell’immaginazione fantastica.
Tolkien era un uomo ordinario, assai poco eccentrico, privo delle idiosincrasie e delle pose tipiche dello scrittore, dedito alla famiglia, agli amici e alla professione di studioso e insegnante; tuttavia ha coltivato sempre un “vizio segreto”, l’invenzione di linguaggi e la passione fono-estetica, sfociato nell’ideazione di una realtà secondaria in cui quelle lingue potessero essere parlate. Una “subcreazione” mitica – Arda, la Terra di Mezzo – che è ormai entrata a fare parte indelebilmente dell’immaginario collettivo.
Pensando a questo contrasto, allora, non stupisce che i protagonisti dei suoi romanzi siano proprio uomini comuni capaci di caricarsi sulle spalle i destini del mondo, quei piccoli Hobbit dai quali Tolkien distillava «il sorprendente e inaspettato eroismo dell’uomo ordinario “quando è necessario”»5.
A suggerirgli quella scelta era stata l’esperienza vissuta, il trauma della guerra, che Tolkien riversò nella propria narrativa, come fecero altri letterati reduci del primo conflitto mondiale. Impiegò il tempo concessogli per costruirsi un’esistenza tranquilla e usò la scrittura non soltanto come terapia o elaborazione del lutto, ma anche come grande strumento per raccontare l’umanità posta di fronte al dispiegarsi del male nella storia e ai dilemmi universali. Dove però altri scelsero la poesia, il memoriale, il romanzo realistico, lui mosse in una direzione del tutto diversa, proiettando i grandi temi del suo tempo su un fondale fantastico e posando in questo modo una pietra angolare per la rifondazione e nobilitazione di un intero genere letterario.
Non tutti all’epoca lo capirono e non pochi stentano a capirlo ancora oggi. Tuttavia le lettere che compaiono in queste pagine testimoniano di un riconoscimento da parte di importanti intellettuali e artisti coevi, anche molto lontani dalla visione del mondo del Professore: il reporter e romanziere per ragazzi Arthur Ransome, il poeta Wystan H. Auden, la filosofa Iris Murdoch, la cantautrice Joni Mitchell, o ancora un giovanissimo Terry Pratchett che, proprio grazie all’influsso di Tolkien, sarebbe diventato scrittore fantasy a sua volta. Le epistole messe in mostra raccontano come Tolkien non fosse affatto un eremita. Tanto era refrattario alle luci della ribalta e alla fama mediatica, quanto trasparente nei confronti dei lettori che gli scrivevano. Lettori di ogni ordine e grado, dai suddetti intellettuali a illustri personaggi pubblici, come la figlia del presidente degli Stati Uniti d’America, o la principessa d’Olanda; ma soprattutto illustri sconosciuti, fossero bambini riconoscenti o ammiratori adulti affamati di dettagli sulla Terra di Mezzo.
Il corpus del catalogo – preceduto da una sequenza di saggi dei maggiori studiosi tolkieniani – è un caleidoscopio di carteggi, ritratti fotografici color seppia, disegni a motivi “morrisiani”, acquerelli coloratissimi, mappe e oggetti. Al netto di ogni tentazione feticistica, il volume è un viaggio nel percorso creativo di un uomo che ha nutrito la propria fantasia incessantemente, esprimendosi non solo attraverso l’arte narrativa e la saggistica, ma anche il disegno, la poesia, la pittura, la calligrafia e la cartografia. Queste pagine ci restituiscono l’immagine di uno studioso e artista poliedrico, a tutto tondo, in costante dialogo con le proprie suggestioni infantili, capace al tempo stesso di svilupparle e traghettarle nel racconto adulto, fino a fare collassare la fiaba nel romanzo epico e nell’ucronia fantastica. Sfogliando queste pagine si respirano anche le difficoltà del narratore, trasmesse attraverso la materialità del vivere quotidiano, o la necessità di scrivere e riscrivere, abbozzare, scarabocchiare e immaginare con penna o pennello, prima di riuscire a creare un mondo tanto vivido da sembrare reale e far nascere la voglia di percorrerne i sentieri. Senza dubbio Tolkien ci è riuscito. È per questo che – volente o nolente – viene celebrato.
A tutto ciò si aggiunge un percorso attraverso il Novecento tramite l’album fotografico di famiglia, dove le generazioni si passano il testimone, cambiano il taglio degli abiti e le acconciature, i giovani indossano divise militari poi abiti borghesi, diventano genitori a loro volta e invecchiano, mentre i loro figli crescono di scatto in scatto, diventando giovani uomini e donne.
Questo fino alla tavola 133, che consiste in una fotografia a colori, a tutta pagina. Lo scopo è evidentemente quello di presentare la toga da cerimonia del professor Tolkien esposta alla mostra, ma il cimelio passa in secondo piano rispetto alla fotografia. Il colore produce un effetto di avvicinamento spiazzante. Siamo abituati a vedere Tolkien in bianco e nero e tonalità di grigio, come un vecchio signore che ci parla da un tempo remoto; e in effetti nel catalogo è così, fino a questa foto. Il soggetto è colto mentre cammina spedito, nella mise adatta a ricevere il dottorato ad honorem in Lettere all’università di Oxford, con il tocco in testa, il papillon candido, la toga scarlatta svolazzante, sotto la quale si vede il gessato a righe. Ha in mano un ombrello chiuso, e sotto il braccio tiene forse il programma della cerimonia o l’attestato stesso. La fotografia è stata scattata il 3 giugno 1972, due settimane prima che scoppiasse lo scandalo Watergate e che David Bowie pubblicasse Ziggy Stardust; dieci giorni dopo la presentazione ufficiale della prima console domestica per videogiochi. Alle spalle del Professore, sfocata, c’è una piccola folla di persone dalla quale si sta allontanando. Si distinguono cappotti e vestiti color pastello, capelli lunghi. Il colore, la dinamicità, il fatto che il soggetto non sia in posa, l’espressione concentrata dell’anziano che non guarda in camera, e, non ultimo, il contrasto tra l’abito cerimoniale e l’abbigliamento moderno delle persone sullo sfondo, ci raccontano qualcosa di diverso dal solito.
Nato e cresciuto in un’altra epoca, legato alle convenzioni dei grandi atenei del regno e del ceto accademico, Tolkien, tramite la sua opera, giunge a lambire e perfino ad avere una parte indiretta nella grande rivolta giovanile degli anni Sessanta e Settanta. Eccolo buffamente agghindato, mentre viene onorato dalla sua università, ed è già un autore caro a una generazione di studenti ribelli, rockers psichedelici e hippies, che nella sua opera legge una critica radicale al proprio tempo, alla società industriale, al potere, e un inno alla libertà, alla pace, alla riscoperta della natura vivente. Le storie di Tolkien hanno contaminato e influenzato la controcultura angloamericana di quegli anni: dai Beatles ai Led Zeppelin, dai giovani di Woodstock a quelli di Glastonbury, da “l’uomo più pericoloso d’America” Timoty Leary a un obiettore di coscienza alla guerra in Vietnam che risponde al nome di George R.R. Martin, a tantissimi altri.
Questo ci ricorda che la letteratura non è un feticcio né un altare sul quale innalzare l’autore, ma vive nel mondo grazie alla partecipazione di chi continua a ritrovarsi nelle storie narrate e a farle collidere con la propria vita. Anche e soprattutto le storie fantastiche, che per Tolkien rappresentavano non già un rifugio incantato, ma un’evasione dalla dittatura realista come atto di resistenza contro l’abbrutimento dei tempi. «Perché la Fantasia creativa si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi»6, scriveva nel celebre saggio Sulle fiabe. Un’asserzione che suona come una petizione di principio e che potrebbe essere l’epigrafe perfetta di questo volume.
1 Lettere 1914-1973, n. 329, Bompiani, 2018, p. 656
2 Ibidem, n. 213, p. 456-457
3 Ibidem, n. 131, p. 231
4 Intervista a Michael H.R. Tolkien sul “Sunday Telegraph” del 9/09/1973, citata in questo volume a pag. 178
5 Lettere, op. cit., n. 131, p. 252
6 Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2004, p. 213
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