Se si dovesse valutare la serie tv Gli Anelli del Potere da un punto di vista “tolkieniano” bisognerebbe innanzi tutto rilevare una cosa evidente. Non potendo raccontare nel dettaglio le vicende della Prima Era (dato che i diritti del Silmarillion non erano nella disponibilità), e dovendo raccontare la Seconda Era basandosi solo sulle appendici del Signore degli Anelli, gli autori hanno fatto una scelta radicale. Non solo hanno riassunto e semplificato l’intera Prima Era in un prologo a volo d’uccello, ma soprattutto hanno reinventato le vicende della Seconda Era con assoluta spregiudicatezza. Tuttavia l’hanno fatto mantenendo una cornice tolkieniana, cioè una serie di riferimenti a eventi e personaggi del passato (Morgoth, Fëanor, Eärendil, ecc.), reinterpretando alcuni personaggi della storia originale (Galadriel, Elrond, Elendil, ecc.) e inventandosene altri di sana pianta (Halbrand, Arondir, i proto-hobbit, ecc.) che agiscono dentro quella cornice.
Ovviamente questo è già sufficiente a scontentare il fandom più conservatore e geloso, che grida alla lesa maestà e guarda la serie con la matita rossa in mano. All’estremo opposto ci sono invece i fan che apprezzano qualunque cosa riguardi la Terra di Mezzo, e tanto più quindi una serie che ha la pretesa di trasporre – ancorché in modo liberissimo – ciò che sullo schermo non era mai stato trasposto. Si potrebbero definire gli innamorati di Tolkien non gelosi. Nel mezzo c’è quella parte del fandom rassegnata a sentire l’odore delle storie di Tolkien senza ritrovarcisi, e guarda gli episodi con un approccio disincantato o divertito, ovvero con snobistico distacco, per il gusto di vedere cos’hanno combinato questi quattrinai yankee.
Per onore di cronaca bisognerebbe citare anche il sottoinsieme assai chiassoso dei fan tolkieniani che se la prendono con la serie perché “fa politica sfruttando Tolkien”, riferendosi al fatto che – come in quasi ogni serie fantastica anglosassone di ultima generazione – è stato scelto un cast multietnico che non rispecchia la cromaticità epidermica nel testo letterario. In Italia di uso politico dell’opera di Tolkien, anche se di segno diametralmente opposto, ne sappiamo qualcosa, quindi dovremmo essere vaccinati, ma tant’è. Certo è che tra tutte le licenze poetiche e le libertà di riscrittura che si sono presi gli autori della serie, quella del cast multicolore è veramente la meno impattante, soprattutto perché le caratteristiche delle razze della Terra di Mezzo sono invece rispettate piuttosto fedelmente. E dal punto di vista tolkieniano è quello che conta.
Difficile assegnare delle percentuali numeriche alle varie categorie di spettatori, ma sono abbastanza riconoscibili nei commenti che si incontrano nel web, con tutte le sfumature possibili tra l’una e l’altra, ovviamente. La sensazione è che ce ne sia per tutti, ovvero che i produttori abbiano deciso di correre il rischio massimo, contando magari anche su una parte di spettatori non-fan che vanno a ingrossare la schiera di quelli che guardano la serie facendo il gioco del “canonico/non canonico”.
Un altro elemento narrativo che salta agli occhi è la centralità assegnata ai personaggi femminili, figlia dei tempi attuali. A Tolkien veniva imputato di averne inseriti pochi nelle sue storie e sempre in ruoli secondari. Ciò non toglie che i suoi personaggi femminili fossero belli e significativi, e dunque suggerissero una presa di spazio che una riscrittura contemporanea non può che mettere in atto. Ad esempio la sottotrama degli Harfoot, i proto-hobbit, completamente inventata, ha al centro una protagonista femminile, Elanor (il nome che sappiamo sarà della primogenita di Sam e Rose Gamgee), che ricorda non poco i protagonisti maschili dei due romanzi di Tolkien, con tanto di personaggio-spalla “buffo”, anch’esso femminile (Poppy). Anche la sottotrama numenoreana è in gran parte imperniata sulla rivalità/alleanza tra Galadriel e la regina reggente Mìriel – contrapposizione anche visiva, trattandosi di due attrici etnicamente agli antipodi – con i personaggi maschili a fare da corollario. E pure le vicende degli Uomini del Sud hanno una protagonista donna, la madre single Bronwyn, accanto all’elfo Arondir, con il quale trapela un’affinità elettiva, per così dire. Meno centrale per ora il personaggio femminile di Disa nella sottotrama che si sviluppa intorno all’amicizia accidentata tra l’elfo Elrond e il nano Durin. Va detto però che ruba la scena a tutti ogni volta che compare, dando vita a siparietti comici ai quali i Nani – forse per colpa dell’imprinting jacksoniano – sembrano destinati.
Un altro aspetto della serie è l’indagine antropologica sui vari popoli di Arda. Di ciascuno vediamo almeno un rituale, un’usanza, un aspetto centrale della società. Vale per i proto-hobbit che commemorano i membri della tribù persi durante le migrazioni; vale per Numenor, con tutto il suo sfarzo, le gilde artigiane, la corte; vale per gli Elfi, con tanto di leggende apocrife; vale perfino per gli Orchi, che venerano un “Padre”.
Questi ultimi sono Orchi primordiali, mezzi talpe e mezzi vampiri, con elmi ricavati da teschi di animali, che scavano gallerie sotterranee e si riparano dall’odiata luce solare con mantelli e tendaggi. Vengono mostrati, per altro, nella goblinesca – e quindi si potrebbe azzardare “filologica” – attività di rendere schiavi gli altri affinché lavorino al posto loro (leggasi Lo Hobbit).
Una nota particolare la merita l’ipotesi narrativa sui proto-Hobbit, rappresentati come un popolo seminomade, costretto a mimetizzarsi nel paesaggio, non avendo altri strumenti di difesa dai pericoli del mondo esterno. Una spiegazione questa di una caratteristica tipica degli Hobbit tolkieniani. Implicitamente si suggerisce che una volta diventato stanziale e sedentario, quel popolo non riuscirà a cancellare completamente le tracce del proprio passato ancestrale. E allora ecco la “tookishness” che ogni tanto affiorerà in un hobbit, scatenandogli la voglia di partire e vedere il mondo, affezione da cui Elanor “Nori” sembra già colpita. Ma ecco anche la canzone della migrazione, della quale retrospettivamente si troverebbe una sopravvivenza in un verso della poesia di Bilbo su Aragorn: «Not all those who wander are lost».
Ci sono altri easter eggs che gettano ponti tra gli Harfoot e gli Hobbit, dei quali almeno due si possono segnalare: l’evidente somiglianza fisiognomica tra Dylan Smith, l’attore che interpreta Largo Brandyfoot, e Dominic Monaghan, l’attore che interpretava Merry Brandybuck nella prima trilogia di Jackson, forse a suggerire una discendenza tra i “Brandy”; e la prima parola pronunciata da Elanor alla sua entrata in scena: «hundred-eleven», gli anni di Bilbo all’inizio del Signore degli Anelli, quelli che si celebrano alla festa attesa a lungo.
Della resa visiva di Arda vale forse la pena parlare solo per dire che è spettacolare. La montagna di soldi spesi lì si vede tutta, sia che si tratti di riprese di paesaggi reali sia che si tratti di ricostruzioni digitali di ambienti urbani, skylines di città, isole, ecc. Almeno su questo è difficile non compiacersi di come è stata rappresentata la visione tolkieniana, in continuità con quella dei film di Jackson. Anzi, forse la critica che si potrebbe muovere è di essere rimasti fin troppo in continuità e non avere osato di più.
Immancabile il “toto-personaggio” innescato astutamente dagli autori: chi è il misterioso uomo caduto dal cielo? Chi è il misterioso Elfo (?) che gli orchi chiamano “Padre”? Chi sono le misteriose figure androgine biancovestite che indagano sul cratere del meteorite? Chi è davvero Halbrand? Eccetera. Alla fine della prima stagione probabilmente alcune di queste domande troveranno risposta. Nel frattempo contribuiscono a tenere alta l’attenzione, a trasformare la visione in un gioco.
Uno dei veri punti deboli della serie sembra invece essere finora quello ritmico-narrativo, sul quale si sono spese non poche critiche. Le prime cinque puntate sono lente, di fatto preparano l’avvio degli eventi senza che accada ancora nulla di eclatante. Per questo scopo cinque ore sono troppe rispetto ai ritmi a cui siamo abituati oggi. Paradossalmente forse non lo sarebbero state per Tolkien, che nel Signore degli Anelli impiega tutto il libro I e ben due capitoli del libro II (in tutto 270 pagine nell’edizione inglese) per apparecchiare la missione dell’eroe e spiegare il contesto in cui si svolgerà. Ma noi non siamo nati alla fine del XIX secolo, e non ci nutriamo di romanzi ottocenteschi, viviamo qui, oggi, e pretendiamo di non addormentarci davanti allo schermo, ma di essere catturati dalla vicenda entro la prima ora. Altrimenti la soglia d’attenzione comincia a calare, WhatsApp chiama, qualcuno suona alla porta, il pensiero della prossima bolletta del gas si insinua infingardo. Non siamo al buio di una sala insieme ad altre decine di persone, ma nel nostro domicilio, magari facendo colazione, o cenando, o stravaccati sul divano alla fine di una giornata di lavoro, col sonno che incombe.
Poi ci sono le critiche sull’intreccio. Sì, perché, come è noto, non sempre la libertà che ci si prende viene spesa al meglio. E allora alcune semplificazioni negli snodi narrativi, alcune gratuite e repentine sterzate della trama, e soprattutto le poche sfumature psicologiche dei personaggi non possono che fare storcere il naso ai palati più sgamati. Soprattutto nella sottotrama numenoreana, non solo gli intrighi di palazzo sono risolti piuttosto ingenuamente e certi personaggi stereotipati; non solo le tensioni sociali sull’isola sono tirate via; ma soprattutto il personaggio di Galadriel risulta un motore fin troppo immobile per far ruotare gli eventi intorno a sé. Quando il personaggio principale di una linea narrativa è poco sfaccettato e si presenta invece come monolitico, risulta difficile appassionarcisi, per quanto iconica sia la sua figura e per quanto un’interprete come Morfydd Clark, con la sua aura celtica e un taglio d’occhi davvero particolare, sia nella parte.
A poco servono i giochi di rimandi con cui gli autori hanno voluto evocare la precedente Galadriel, o meglio, la grande attrice che l’ha interpretata, Cate Blanchett. Sono almeno due riferimenti a chiave, che passano attraverso un altro personaggio, quello della regina Elisabetta I di cui l’attrice australiana ha vestito i panni in due film. La Galadriel degli Anelli del Potere pronuncia la fatidica frase «There is a storm in me» che riecheggia quel «I have a hurricane in me» di Blanchett-Elizabeth urlato davanti ai minacciosi ambasciatori spagnoli. E l’armatura che Galadriel indossa quando sale sulla nave numenoreana che dovrà portarla nella Terra di Mezzo è quasi identica a quella indossata dalla regina Elizabeth in una celebre scena del secondo film.
Il punto è che un personaggio così importante nella serie per ora non riesce a essere complesso, mostrando solo una maniacale forza di volontà, abilità guerriere da eroina Marvel, e un’ossessione cieca per la propria missione. Anche senza considerare la grande potenzialità dell’originale, questo deficit di scrittura del personaggio si fa notare perfino più delle azzardate invenzioni sul metallo mithril, o delle contraddittorie strategie del re Gil-Galad, et similia.
Più interessanti, perché ancora misteriosi, indubbiamente i personaggi dell’Uomo caduto sulla Terra (di Mezzo) e di Adar, il villain manifesto, interpretati da due attori davvero nel ruolo, Daniel Weyman e Joseph Mawle. Ben scritte finora le loro parti e ben interpretate. Almeno quanto quella di Sadoc, l’anziano leader degli Harfoot, che detiene la memoria storica e il libro divinatorio della tribù, affidata a Sir Lenworth George Henry CBE (una garanzia).
A conti fatti, l’impressione è che questa serie seguiterà a far parlare di sé gli appassionati tolkieniani. Anche quelli che la respingono o la snobbano. Anzi, soprattutto quelli. E questo è comunque un risultato di audience che la produzione incassa. Chi se la godrà di più, invece, saranno gli spettatori dall’occhio talmente postmoderno da ridiventare ingenuo. Ce li si immagina – non senza un pizzico di celatissima invidia – come degli adulti bambini che non pretendono che la vicenda sia perfettamente coerente e realistica, o i personaggi profondi, o la storia aderente all’ortodossia tolkieniana, ma riescono a vedere la serie come una favola postmoderna, appunto: una storia relativamente semplice, a tratti anche bislacca, ma spettacolare e piena di riferimenti a quello che amano.
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LINK ESTERNI:
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Ciao Wu MIng 4, ho una questione che davvero mi interessa e che mi pongo da anni. Sono rimasto sorpreso da questo commento, arrivato da uno che pensa, e quindi credo di poter finalmente ricevere una risposta intelligente. Cosa intendi per lento? Cosa è lento e cosa no? Cosa andrebbe fatto e cosa no?
Grazie se deciderai di rispondermi, ma anche se non lo farai dai.