ATTENZIONE SPOILER
Mi apro alla chiusura
Per certi versi si potrebbe dire che la prima stagione degli Anelli del Potere è servita a svelare l’identità dei due personaggi misteriosi – e futuri avversari – apparsi al principio. Purtroppo questo avviene con il più classico “contro colpo di scena”, per cui si fa credere allo spettatore che costoro non siano quelli che si aspettava…ma alla fine invece sì, erano proprio loro. Il buono quindi – coerente nell’aspetto fin dall’inizio – è pronto a intraprendere il suo viaggio, e il cattivo – anche lui con indosso un coerentissimo pastrano nero – muove verso la Montagna di Fuoco. Finalmente le pedine sono sul tavolo e il gioco può cominciare. Perché questo è stata la prima stagione: una sorta di lunga (e lenta) premessa al dispiegarsi futuro dello scenario, al termine della quale sappiamo chi sono i buoni e i cattivi, ma soprattutto abbiamo visto la forgiatura dei Tre Anelli degli Elfi che campeggiano nel titolo (gli altri seguiranno, si suppone).
Va detto che nell’ultimo episodio la perizia attoriale del cast trova la sua vetta: per il finale di stagione attori e attrici hanno dispiegato le proprie doti per caricare di pathos o inquietudine le scene, come nelle puntate precedenti erano solo parzialmente riusciti a fare. Anche gli autori lo hanno fatto, ma senza superare i limiti già segnalati da molti, cioè l’eccesso di citazionismo, che diventa ammicco allo spettatore – vedi Halbrand che cita a Galadriel le cose che lei stessa dirà nel Signore degli Anelli, e l’uomo piovuto dal cielo che cita a Nori le cose che lui stesso dirà nel Signore degli Anelli; i dialoghi dal registro quasi sempre troppo aulico e impostato; i cambi di scena “sul più bello” da una linea narrativa all’altra, che non lasciano allo spettatore il tempo di consumare e smaltire le emozioni, di fatto quindi spingendolo al distacco emotivo.
In questo modo si costringe il pubblico adulto – ma ormai non solo quello – a guardare Gli Anelli del Potere con occhio post-moderno, come si guarderebbe un quadro o un catalogo illustrato, riconoscendo qua e là elementi famigliari, easter egg, citazioni, e bellissimi scorci di ciò che sarebbe potuto essere. È la scrittura di scena all’epoca dei reboot e dei remake, che toglie il gusto alle narrazioni, trasformandole in giochetti di rimandi, ripetizioni, riconoscimenti.
A rimetterci è ovviamente l’epica. Inutile cercarne traccia, se non forse nella colonna sonora, che sembra fare il verso a quella delle trilogie jacksoniane e ricorda vagamente quella di Star Wars.
Per usare un’immagine immediata: una Terra di Mezzo senza epos è un po’ come un cono gelato senza gelato. E per quanto la pasta del biscotto possa essere buona…
Il “cringe”
I collezionisti di scene/scelte illogiche o di momenti di sciatteria narrativa hanno avuto il loro bel da fare in questa prima stagione. Si potrebbe prendere a esempio una sequenza del sesto episodio, quella dell’arrivo dei Numenoreani a cavallo con il sole che sorge alle loro spalle. I cavalieri stanno arrivando da sud-ovest in direzione est-nord-est. Questo lo sappiamo bene perché la regia ha insistito parecchio sulla mappa, mostrandoci il percorso dalle foci dell’Anduin alle Terre del Sud. Dunque non si scappa: il sole che sorge dovrebbe baciare i cavalieri sulla fronte.
Più in generale, l’intera linea narrativa in questione risulta densa di elementi che va di moda definire “cringe”, cioè imbarazzanti. Di esempi ne sono stati sottolineati tanti dagli spettatori critici: una spedizione di soccorso del possente regno di Numenor, già di per sé composta da trecento volontari male addestrati, si risolve in una scaramuccia contro poche decine di orchi, in un villaggio di quattro capanne e una locanda; un meccanismo a chiave innesca un’eruzione convogliando l’acqua di un lago di montagna dentro un vulcano; gente gravemente ferita si rimette rapidamente in piedi, e magari sale pure a cavallo. E via di questo passo. Per non parlare dell’abuso di deus ex machina: una zattera intercettata in mezzo all’oceano per ben due volte (prima da Galadriel, poi da Elendil); il puntualissimo arrivo alla carica dei “nostri” numenoreani per salvare il villaggio; minacciosi orchi trafitti in extremis, un attimo prima che l’eroe di turno soccomba sotto i loro colpi; eccetera.
A questo si aggiungono il ritmo narrativo lento e spezzettato in almeno quattro sottotrame, che in otto ore hanno appena fatto in tempo a decollare, e uno sviluppo dei personaggi che lascia molto a desiderare. Questi hanno moventi stereotipati, quando li hanno, e appaiono quasi tutti monodimensionali; le loro contraddizioni, lungi dal diventare il motore drammatico della storia, non hanno una vera e propria ricaduta sulla trama e quindi rimangono enunciate, spesso in dialoghi legnosi.
Il problema si presenta in misura maggiore in certi personaggi secondari – un esempio tra tutti: gli insulsi Elendil & famiglia – e in misura minore anche nei protagonisti. Nori, personaggio che porta in sé la contraddizione tra seguire il sentiero tracciato o batterne uno nuovo, ha impiegato sette episodi per decidersi. Lo stesso tempo occorso a Durin Jr per rompere col padre in nome dell’amicizia interrazziale con Elrond. Questi sarebbero dovuti essere i punti di partenza e non già di arrivo di una stagione lunga otto episodi.
Ma forse è Galadriel, per la sua centralità, l’epitome di questo deficit di scrittura: un personaggio che predica bene e razzola male, senza che questo le produca un fremito, ondeggiante tra ossessione vendicativa e riflessioni filosofiche su quanto l’ossessione stessa prepari il terreno al contagio del male, al punto da farsi sgamare niente meno che dal padre degli orchi, nel dialogo più bello di tutta la stagione.
E qui, anche senza indulgere nel purismo o nella critica di stampo filologico, bisogna dire che lo stravolgimento delle motivazioni dell’elfa più celebre grida vendetta. Nelle storie di Tolkien il movente che spinge Galadriel ad andare nella Terra di Mezzo è precisamente il desiderio di autonomia e autarchia: lei vuole diventare una regina. La parabola del personaggio si compirà nel Signore degli Anelli, con il rifiuto dell’Anello che Frodo le offre e il ritorno a Valinor. Negli Anelli del Potere invece è Sauron a tentare Galadriel con la prospettiva di diventare la “sua” regina (con le scontate implicazioni erotiche del caso), per essere immediatamente respinto. Quella che in Tolkien è una fertile contraddizione intrinseca al personaggio, diventa una tentazione del demonio, banalizzando così il carattere di Galadriel, che resta fedele all’immagine della santa in armatura presentataci fin dall’inizio e per la quale è impossibile provare una qualsivoglia empatia.
Questo è un tipico esempio di appiattimento rispetto alle potenzialità di una riscrittura a partire dall’originale. Originale dal quale ci si può allontanare finché si vuole, ma a condizione di produrre una rilettura avvincente e convincente. Più che il metro filologico è quello qualitativo a marcare il fallimento della scrittura. Freudianamente parlando, uccidere il padre (Tolkien) dovrebbe servire a farlo rinascere in noi in una veste nuova, facendoci diventare adulti e facendoci trovare la nostra via per la Terra di Mezzo. Se invece lo si evoca in continuazione, citandolo in lungo e in largo, invece di concentrarsi su una nuova storia che sia all’altezza della crescita, ci si condanna a rimanere prigionieri del proprio infantilismo.
Schegge di luce… nell’oscurità
Insomma la prima stagione degli Anelli del Potere, la serie Tv più costosa nella storia delle serie Tv, è paradossalmente povera. Povera di comparse, di scenografie che non siano quelle ricostruite virtualmente, e soprattutto di qualità narrativa.
Il paradosso nel paradosso è che invece risulta ricca di spunti e di temi derivati dalla narrativa tolkieniana. Uno tra tutti: la rivisitazione del problema degli Orchi attraverso un personaggio come l’elfo-orco Adar, senza dubbio il migliore visto finora. O ancora la visione degli Hobbit nella fase seminomade della loro storia, prima che si mettessero a scavare buchi. O ancora il peso dell’altra metà della Terra di Mezzo, cioè i personaggi femminili. Perfino l’attenzione per alcuni aspetti etnografici o mitici dei vari popoli, usi, costumi, leggende, ecc. (toccante e azzeccata la scena della morte di Sadoc, nella quale gli altri, come in un rituale, si siedono accanto a lui in attesa del sorgere del sole e della sua dipartita). Gli elementi interessanti non sono mancati di certo. Ma non bastano a salvare una sceneggiatura il cui scopo sembra essere quello di intrattenere un’ideale e generica famigliola americana di pochissime pretese, che forse ormai esiste solo nell’immaginario degli executives hollywoodiani. Per quanto grandiosi siano gli scenari tolkieniani rappresentati, perfetta la fotografia, belli i costumi, e acuta la riflessione sulle architetture e i panorami, tutto questo si riduce a cartolina se poi si trascurano i dettagli narrativi e l’approfondimento psicologico dei personaggi. È qualcosa che non ci si può permettere davanti al pubblico smaliziato dell’AD 2022, pena passare per sciatti scialacquatori di centinaia di milioni di dollari.
Insomma la cosa che fa rabbia è che il lavoro sulla materia tolkieniana c’è e si vede: solo che è fuori fuoco e piegato a soluzioni semplicistiche.
Avendo a disposizione le Appendici del Signore degli Anelli per raccontare la Seconda Era, gli scrittori amazonici potevano contare su un grande margine di manovra, da investire in una resa delle vicende innovativa, spiazzante, che spostasse l’asticella più in alto rispetto alla rilettura di Peter Jackson. Questo finora non è accaduto, se non appunto in alcune eccezioni: il mesmerico Adar liberatore degli Orchi, la società tribale dei Pelopiedi, il ruolo di una principessa consorte nanica, e poco altro.
Un esempio di potenzialità? La versione femminile di Bilbo e Frodo, cioè quella Elanor/Nori che è la prima proto-hobbit a lasciare il sentiero consueto per intraprendere un’avventura. Un’eroina buona per il mito, insomma, in una società seminomade e comunitaria, quindi ancora paritaria sul piano dei rapporti di genere, al contrario di quella che sarà la società stanziale degli Hobbit nella Contea, fortemente patriarcale. Interessante riflessione questa, che motiva appunto il ruolo di una giovane femmina la cui intraprendenza non è ostacolata bensì incoraggiata dai famigliari (Nori:«I’ll be careful», Marigold: «No, you’ll be bold»).
Peccato davvero che questa potenzialità sia inscritta in una storia che fa del cliché la sua cifra, affidandosi all’onnipotenza del brand “Tolkien” per essere sdoganata come macchina d’immaginario. A queste condizioni è ben difficile che ci riesca, come invece c’era riuscito Jackson, pur con tutti i suoi limiti, approcciando la materia con tutt’altro spirito nella sua prima trilogia. Il neozelandese aveva invece fallito nella seconda, quella tratta dallo Hobbit, a dimostrazione che l’unicità dell’opera d’arte, pur nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – per dirla con Benjamin – e della sua riproposizione potenzialmente infinita, è qualcosa che ancora resiste evidentemente (Paganini non ripete, perché non può ripetersi). Come infatti resiste il legendarium tolkieniano, del quale Gli Anelli del Potere sembrano sancire l’irriducibilità.
Postilla sulla società dello spettacolo
«Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d’accumulazione da divenire immagine» scriveva Guy Debord alla vigilia del Sessantotto. Jeff Bezos potrebbe sottoscrivere. L’uomo più ricco del pianeta, al vertice del settore più avanzato del capitalismo, quello della distribuzione a domicilio di merci e intrattenimento, della disintermediazione commerciale, ha pensato di poter far compiere un bel giro di ruota non tanto al fatturato (non ne ha bisogno) quanto alla produzione di immaginario. Ha dispiegato mezzi mai visti prima, rimettendo in circolazione il brand “JRRTolkien” con accanto la freccia a forma di sorriso, quello del cliente soddisfatto o rimborsato. A quanto pare invece quella freccia piega verso il basso, vista la ricezione critica e la delusione che la prima stagione degli Anelli del Potere ha collezionato presso gran parte del fandom tolkieniano. Dunque ad Amazon resta il fatturato – perché il successo quantitativo è comunque certo, nemmeno i critici più accaniti eviteranno di guardare la serie, incluse le prossime stagioni -, ma al netto della gloria sperata. Anzi, l’effetto ottenuto è paradossalmente quello uguale e contrario, dato che il coro che si alza dal fandom suona come un “Ridateci Tolkien!”. Ecco, quest’ansia gelosa ha al contempo due aspetti.
Il primo aspetto si è manifestato fin dalla comparsa dei trailer della serie. È quell’atteggiamento che al politicamente corretto degli studios americani (cast multietnico, preponderanza dei personaggi femminili, ecc.) contrappone il filologicamente corretto, cioè il conservatorismo cultuale. In questo caso, Bezos – con i suoi potenti media manager – ha dovuto solo tirare su l’amo al quale in tantissimi avevano abboccato, per presentarsi come novello Abramo Lincoln osteggiato da orde di rednecks retrogradi. Ma presto questo è passato in secondo piano di fronte al fallimento narrativo, che si è posto come il vero problema della serie. Ed è qui che entra in gioco il secondo aspetto della protesta contro la colonizzazione dell’immaginario tolkieniano da parte di una delle più potenti multinazionali del mondo. Il fandom pretende che l’universo fantasy di Tolkien sia raccontato con il proprio stesso amore e devozione, ma si rende conto che la macchina mitologica hollywoodiana questo non riesce affatto a garantirlo. La frustrazione, se appunto non si esaurisce in un piagnisteo da “imbalsamatori” (per dirla con Tolkien), ma diventa presa di coscienza, può evolvere in una sana ribellione contro le draconiane leggi del copyright, quelle che perseguono con pervicacia e dispiego di mezzi polizieschi qualunque riappropriazione creativa dal basso, almeno fino a settant’anni dopo la morte dell’autore, senza il minimo riguardo per gli ordini di grandezza. Coloro che succhiano (grandi) dati dai social network e spunti creativi – magari per correggere il tiro di una serie Tv bersagliata di critiche – sono gli stessi che mantengono salde le enclosures della proprietà privata “intellettuale”, nell’interesse di chi può pagarla di più e farne ciò che vuole. Cioè lo zio Jeff.
Ecco queste due anime del fandom, mescolate tra loro, oggi sono allo specchio. E non ci sono dubbi che il loro manifestarsi è uno degli effetti collaterali più interessanti – e chissà magari anche fertili – degli Anelli del Potere. Chi vivrà vedrà.
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https://fuocofatuo215166483.wordpress.com/2022/10/14/you-say-you-want-mithril-on-your-rings-of-power-recensione/