Serie tv, la recensione dei primi tre episodi

«E così ha inizio…». La nuova stagione de Gli Anelli del Potere, la serie miliardaria creata da J.D. Payne e Patrick McKay e prodotta da Amazon MGM Studios, è uscita lo scorso 29 agosto con le prime tre puntate (le altre saranno inserite settimanalmente) e noi stiamo lì, in piedi come re Théoden al fosso di Helm, a osservare l’inizio della battaglia sotto una pioggia battente (mica tanto: chi scrive vive nel profondo Harad e semmai deve fronteggiare il problema della siccità, ma passi la licenza poetica). Se ne è parlato tanto, spesso con grandi scontri, perlopiù da dietro le trincee delle tastiere, tra critici ed entusiasti, tra chi ritiene sia in atto un “tradimento” ai danni di Tolkien e chi scorge nella serie Amazon una sintonia con l’opera del Professore, tra chi ne biasima la scrittura e chi la esalta. Di certo, si tratta di un evento che coinvolge ogni appassionato e che catalizza le attenzioni dell’ampia e variegata comunità tolkieniana. Se l’obiettivo degli showrunner era il “purché se ne parli” (regola n. 1 del marketing: non esiste cattiva pubblicità, solo pubblicità), possiamo dire che è ampiamente raggiunto. Naturalmente, discussioni e riflessioni si sono prodotte anche all’interno dell’AIST, sempre attenta a ogni novità riguardante il mondo di Tolkien, e anche all’interno dell’AIST si sono prodotti pareri differenti. Le righe che seguono vogliono esprimere il punto di vista di chi scrive e non quello dell’Associazione che non ha linee-guida o posizioni ufficiali su questo come su altri argomenti – come è sempre stato dalla sua fondazione.

Non è mia intenzione proporre qui una sinossi delle prime tre puntate della nuova stagione degli Anelli del Potere: chi le ha viste si sarà già fatto la propria idea, chi non le ha viste e abbia un minimo di curiosità potrà trovare decine di riassunti in rete. Mi interessa maggiormente proporre alcune considerazioni di carattere generale su un prodotto che, da un lato, afferma di richiamarsi a un’opera stratificata e complessa come quella di Tolkien ma, dall’altro, pretende di apportarvi modifiche, aggiunte o addirittura aggiornamenti e migliorie. Ribadisco che non si tratta di giudicare Gli Anelli del Potere sul metro della fedeltà al tracciato tolkieniano: una trasposizione “bella e infedele” rimane bella, forse proprio perché infedele, e i puristi se ne fanno prima o poi una ragione. A mio parere, il problema della serie Amazon riguarda prima di tutto la qualità della scrittura. Per quanto questa seconda stagione presenti certamente meno problemi di struttura narrativa e dialoghi rispetto alla precedente, nondimeno continua ad avere grossi difetti di ritmo: la narrazione risulta ancora troppo frammentaria e confusa, con un numero spropositato di linee narrative che gli showrunner faticano a gestire in modo efficace. Ciascuna è spezzettata in scene brevi o brevissime che spesso paiono di carattere più esornativo che sostanziale e mostrano tutt’al più un continuo sforzo da parte degli autori di creare momenti di grande pathos: il risultato è che assistiamo a momenti che vorrebbero essere drammatici ma si sviluppano quasi per caso, giungono velocemente al climax e poi si esauriscono in cliffhanger scontati senza aver apportato alcun vero progresso nella trama generale, che incede con una lentezza disarmante. Ad esempio: nel giro di una o due puntate veniamo messi di fronte alla possibilità che gli Anelli elfici salvino la Terra di Mezzo, la vediamo sfumare mercè l’intervento di Elrond ma non facciamo in tempo a metabolizzarne le conseguenze che interviene Círdan, uno degli innumerevoli dei ex machina che costellano la serie, a riportare la situazione esattamente al punto di partenza.

Un altro problema di scrittura riguarda la caratterizzazione dei personaggi, meno statici ed impacciati che in precedenza ma ancora privi di un vero e proprio spessore drammatico. Galadriel (Morfydd Clark), sempre un po’ Mary Sue e un po’ Karen, resta il personaggio su cui la serie si focalizza maggiormente ma, almeno per ora, non sembra crescere rispetto alla prima stagione. Come in precedenza, appare mossa da un desiderio più di vendetta che di giustizia, come se quella con Sauron fosse una battaglia personale alla quale tutti gli altri appaiono totalmente disinteressati anche quando la minaccia diventa tangibile. L’unico cedimento nella sua fibra anodina è la consapevolezza bruciante che Halbrand l’ha “suonata come un’arpa” (espressione che suona malissimo anche pronunziata da un Elfo), ma per il resto procede spedita come un treno con la certezza che, finito il giro di giostra, ad aver ragione sarà sempre e comunque lei a dispetto di tutto e tutti. Del resto, l’eccessiva fretta degli showrunner nello svelare l’identità di Sauron ha creato più di un problema alla trama generale della serie. Il principale riguarda proprio Galadriel: resta aperta, infatti, la domanda che nel primo episodio è lo stesso Gil-galad ad esplicitare: «Perché ti destreggi per non dire la verità?». È la domanda che, con lui, si pone anche lo spettatore: perché l’intrepida Elfa non rivela a tutti ciò che sa, che Halbrand altri non è che Sauron? La risposta sensata pare una sola: «Perché altrimenti la serie finirebbe subito». Sì, perché in un mondo fantastico in cui i protagonisti percorrono distanze enormi da una scena all’altra ma i messaggeri che portano messaggi di importanza vitale tardano (Amazon che fa cattiva pubblicità ai corrieri, ma guarda tu…), se Galadriel avesse messo subito Celebrimbor al corrente dell’identità di Halbrand avrebbe risparmiato un bel po’ di guai a tutti.

Proprio Celebrimbor (Charles Edwards) è il personaggio che, nella serie, patisce maggiormente i danni di una cattiva scrittura. Tralasciamo l’improbabile dialogo della prima stagione in cui un oscuro esule del Sud dà consigli di metallurgia nientemeno che al nipote di Fëanor, secondo soltanto a quest’ultimo nelle arti della forgiatura, facendolo gongolare come l’ultimo dei ragazzi di bottega. “Eh, ma Halbrand è Sauron, i suoi consigli non sono quelli dell’ultimo venuto…”. Giustissimo: ma allora bastava costruire meglio la scena, non inventarsi un banale consiglio sulle leghe metalliche. Ma andiamo oltre… In questa stagione, lo si è detto, Galadriel non informa il signore dell’Eregion della vera identità di Halbrand ma intima a lui, come agli altri, di diffidarne. Eppure, al public enemy n. 1 della Terra di Mezzo bastano un semplice giro di parole su Galadriel e sugli Anelli che “hanno funzionato” e una scenografica presentazione come emissario dei Valar perché Celebrimbor si lasci candidamente abbindolare, prostrandosi ai suoi piedi (come se egli stesso non fosse nato in Valinor, come se egli stesso non avesse scorto il volto delle Potenze di Arda). Negli scritti di Tolkien la questione è più complessa ma anche molto più netta, vuoi anche grazie a una cronologia decisamente meno contraddittoria. È vero che «all’inizio della Seconda Era [Sauron] aveva ancora un aspetto bello, o poteva assumere una bella forma visibile, e non era in effetti completamente malvagio» (Lettere, n. 153) e che si era presentato agli Elfi con «il nome di Annatar, il Signore di Doni» (Il Silmarillion, Degli Anelli del Potere e della Terza Era) ma è anche vero che «Gil-galad ed Elrond nutrivano dubbi su di lui e sul suo bell’aspetto; e, sebbene non sapessero chi egli fosse davvero, pure non gli permettevano di metter piede su quella terra» (Ivi); del resto, sebbene la «brama di conoscenza» dei fabbri dell’Eregion «permise a Sauron di abbindolarli» (Il Signore degli Anelli, Il consiglio di Elrond), lo stesso Celebrimbor non era così ingenuo da credere ciecamente a ogni parola di Annatar: «non lo perdeva d’occhio e nascose i Tre che aveva fatto» (Ivi). L’errore dei Fabbri dell’Eregion non è stato, perciò, quello di essersi gettati tra le braccia del primo venuto; essi dubitavano di Annatar tanto quanto Gil-galad ed Elrond ma, contro gli ammonimenti di questi ultimi e i propri stessi sospetti, avevano accettato i suoi “doni” perché desideravano la sua conoscenza, per la quale erano disposti a osare ogni cosa. Quale che fosse la reale identità di Annatar, essi non hanno dato prova di dabbenaggine, hanno consapevolmente accettato un rischio pienamente percepito. Con la conseguenza che, lentamente sobillato da Sauron, Celebrimbor aveva maturato l’intenzione di rendere la Terra di Mezzo «splendida come Valinor», ciò che costituisce «un velato attacco agli dèi, un’istigazione a provare a creare un paradiso indipendente e separato» (Lettere, n. 131). È qualcosa, insomma, di molto più sottile ma anche molto più sinistro rispetto a quanto visto nella serie, in cui Celebrimbor è tutt’al più un artefice benintenzionato ma ingenuo e frustrato dal confronto con Fëanor e dalla sudditanza a Gil-galad.

Veniamo a Halbrand, ovvero Annatar, ovvero Sauron (Charlie Vickers). La scena iniziale del primo episodio, nella mente degli showrunner, vorrebbe essere un geniale antefatto per spiegare le ragioni dell’incontro tra Halbrand e Galadriel ed il motivo per il quale Adar crede di aver ucciso Sauron. Tralasciamo la scena dell’uccisione del falso (o vero) Sauron per mano degli orchi, il sangue-blob che si fa strada attraverso Mordor e via dicendo… La questione che rimane aperta è un’altra: perché mai Sauron dovrebbe tentare (fallendo miseramente) di convincere gli orchi a seguirlo? L’Oscuro Signore non è esattamente un democratico, il suo ascendente su di essi non si basa sul convincimento ma sulla coercizione, sul terrore e sul potere. Nelle intenzioni degli showrunner, credo, questa scena dovrebbe avere lo scopo di far capire che gli orchi hanno una volontà propria, che non sono semplicemente creature malvagie: essi possono persino desiderare la tranquillità e la sicurezza che Adar sembrerebbe garantire (e che Sauron metterebbe a repentaglio), come mostra la scena in cui uno di loro, parlando con il Signore-Padre, chiede se sia proprio necessario scendere in guerra e poi si gira verso la moglie (?) col figlio in fasce (?). Al di là della scena un po’ maldestra e sovraccaricata, questo è un elemento di grande interesse che, se ben sviluppato, potrebbe offrire un contributo a una questione sulla quale lo stesso Tolkien si lambiccò per anni. Finora, però, il solo risultato è quello di rendere estremamente confuse le interazioni tra Sauron e gli orchi. Allo stesso modo, non è del tutto chiaro perché egli si riconsegni a Adar perorando la liberazione degli Uomini del Sud (salvo poi sfuggire dalla prigionia in un paio di scene, non senza aver preparato una bella sorpresa per il suo carceriere). È probabile che nel primo tentativo, quello conclusosi con la sua “uccisione”, Sauron non avesse ancora le forze necessarie a imporsi sugli orchi (ma questo non è spiegato) e che nel secondo, quello della sua prigionia, abbia come unico scopo annunziare a Adar che l’Oscuro Signore non è morto. È possibile, sì, ma la narrazione appare troppo confusa e inutilmente complicata e la sensazione che se ne trae è di una serie di scene che si succedono senza una linea ben definita.

Quanto a Elrond (Robert Aramayo) e Gil-galad (Benjamin Walker). Il primo finalmente mostra un minimo di fibra e risorse morali, smette i panni del politicante che gli erano stati affibbiati nella prima stagione e ora agisce quasi come il maestro di saggezza che dovrebbe essere; purtroppo, a causa degli stravolgimenti cronologici, egli finisce per opporsi non alla collaborazione con Annatar (quel treno è già bello che passato…) ma all’utilizzo dei tre Anelli una volta che questi sono stati realizzati. Gil-galad, dal canto suo, adesso appare meno come un sovrano interessato esclusivamente al proprio potere e più come un signore che desidera la guarigione del mondo: proprio per ciò, differentemente da Elrond, egli intende utilizzare gli Anelli. Ma ecco, ancora una volta, una profonda incomprensione di Tolkien da parte degli showrunner: nella serie, infatti, lo “svanimento” degli Elfi è causa della decadenza del mondo mentre in Tolkien avviene l’esatto contrario poiché lo “svanire” è «il modo in cui [gli Elfi] percepivano i cambiamenti del tempo (la legge del mondo sotto il sole)» (Lettere, n. 131). Donde la necessità dei Tre che, così come nelle opere tolkieniane, anche nella serie servono ad abbellire, preservare e guarire le ferite della Terra di Mezzo. Tuttavia, essi sembrano esercitare il medesimo, sinistro potere di fascinazione dell’Unico Anello: ciò è inspiegabile alla luce degli scritti di Tolkien, nei quali si afferma che essi, pur essendo «assoggettati all’Unico», sono «immacolati, poiché a forgiarli era stato il solo Celebrimbor, né mai la mano di Sauron li aveva toccati» (Il Silmarillion, Degli Anelli del Potere e della Terza Era). Nella serie Amazon tutto è più oscuro, confuso, e non si può avere del tutto questa certezza che, negli scritti del Professore, costituisce la condizione stessa del loro utilizzo da parte degli Elfi. Appare altrettanto strana, infine, la spartizione degli Anelli elfici, buttata lì un po’ a caso con Círdan che, dopo aver tentato di gettarli in mare, li restituisce a Gil-galad ma si appropria di Narya, l’Anello di Fuoco, senza il consenso di alcuno, il re del Lindon che si infila Vilya e Nenya che gli cade di mano e finisce da Galadriel. Tolkien rende chiaro, anzitutto, che i Tre furono non i primi ma gli ultimi Anelli del Potere forgiati da Celebrimbor – qui non si tratta di filare lana caprina sulle cronologie, ma di comprendere che, essendo l’opera finale del signore dell’Eregion, essi costituiscono il picco della sua arte – e che la loro spartizione avvenne solo quando questi si avvide della creazione dell’Unico e, consigliatosi con Galadriel, affidò a lei Nenya e a Gil-Galad Vilya e Narya (quest’ultimo, poi, passato a Círdan) per allontanare i Tre dall’Eregion, dove Sauron supponeva si trovassero. Un’altra cosa che stona è che, sebbene nella serie si parli continuamente di un potere che sta «oltre la carne», sembra ancora che le virtù degli Anelli elfici non derivino che dal mithril, qui inopinatamente trasformato in un metallo magico che contiene in sé il potere di salvare gli Elfi dallo svanimento e il mondo dalla decadenza. Inutile dire che, per Tolkien, non è la materia di cui sono fatti gli Anelli ma l’Arte con cui sono creati a renderli potenti.

Passiamo alle Honorable mentions. Anzitutto lo Straniero (Daniel Weyman), ancora perso nel suo viaggio verso chissà dove insieme a Nori (Markella Kavenagh) e Poppy (Megan Richards), novelle Frodo e Sam nella terra di Rhûn. Risulta strano, ancora una volta, che un Istar inviato dai Valar in soccorso della Terra di Mezzo sia così poco consapevole dei propri poteri, ma si sa già che presto incontrerà un mentore, un personaggio presentato dagli showrunner come lo “Yoda della Terra di Mezzo”… Tra le glorie di Númenor, invece, Pharazôn (Trystan Gravelle) trama per raggiungere il potere e, infine, coglie l’attimo per autoproclamarsi re. La scena dell’apparizione dell’Aquila, tanto per cambiare, non è scritta benissimo ma ha un grandissimo impatto visivo. Rimane aperto il mistero di quest’ennesima figura di deus ex machina, ma qui l’oscurità (purché sia temporanea) ha un senso: l’emissaria alata di Manwë è lì per Míriel? Pharazôn si limita a rigirare questo segno a proprio beneficio? Che i Valar lo favoriscano è da escludersi, quindi occorrerà vedere se di vero presagio si tratta. Frattanto l’arco narrativo di questo personaggio sembra quello meno stropicciato della serie, anche se questa attenzione all’intrigo politico sembrerebbe più adatta al Trono di Spade che non al legendarium tolkieniano. Infine, occorre citare la new entry, il misterioso stregone (Ciarán Hinds) a capo delle tre emissarie che nella scorsa stagione si erano imbattute nell’uomo caduto dalle stelle. La caratterizzazione e l’aspetto, per ora, non mi paiono del tutto convincenti: con quell’enorme bastone dalla foggia “barbara” e quel trono monolitico, parrebbe uscito più da un’avventura di Conan che da una storia di Tolkien. L’identità di questo personaggio è ancora celata, c’è solo da sperare che non si tratti di Saruman o, in generale, di un Istar…

Si potrebbero aggiungere molte altre cose ma credo che sia bene, a questo punto, elencare gli indubbi punti positivi di questa nuova stagione degli Anelli del Potere. Il primo è senz’altro costituito dalle spettacolari ambientazioni e dalle scenografie che, pur fortemente derivative rispetto alla trilogia jacksoniana – la capitale di Númenor ricorda Minas Tirith, Pelargir sembra Osgiliath –, risultano convincenti e di grande impatto visivo. Lo stesso si può dire della colonna sonora che certamente ricorda le atmosfere di Howard Shore ma sa essere estremamente evocativa, con exploit gradevoli come la canzone di Gil-galad del secondo episodio. Il livello generale della recitazione, inoltre, è su livelli medio-alti, sebbene si avverta la mancanza di Joseph Mawle, vero mattatore della precedente stagione, il quale aveva saputo conferire complessità a un personaggio difficile come Adar, che ora risulta assai più piatto; ancora del tutto apprezzabile è, invece, la performance di Peter Mullan nei panni di Durin III, a mio parere il migliore e più fedele esempio cinematografico di nano tolkieniano. Purtroppo, constatare tutto questo lascia l’amaro in bocca perché un comparto tecnico e attoriale di indubbia qualità patisce inevitabilmente i limiti di una scrittura approssimativa.

In definitiva, come ho già detto, anche in questa seconda stagione Gli Anelli del Potere sembra rimanere un prodotto che, pur richiamandosi a Tolkien, pretende di modificarlo a piacimento e senza apprezzabili ragioni di natura specificamente cinematografica. Indipendentemente dal risultato, che sta al singolo spettatore giudicare, il problema che a mio parere si pone è chiaro: una trasposizione, quale che sia la sua natura mediale, passa inevitabilmente dalla comprensione dell’opera cui si ispira. Si parva licet, penso ancora a cult come Apocalypse Now o Blade Runner, chiari esempi di opere “belle e infedeli” che hanno compreso profondamente i romanzi cui si ispiravano e hanno potuto rimaneggiarli, perfino alterarli, senza smarrirne il senso profondo ma anzi tenendolo sempre presente e arricchendolo di nuovi significati. Lo stesso si può dire, ad esempio, per la prima trilogia jacksoniana, che ha modificato fortemente alcuni aspetti anche essenziali del Signore degli Anelli – e non solo quelli che avrebbero funzionato meno dal punto di vista cinematografico – ottenendo comunque un risultato in buona parte concorde con lo spirito dell’opera. Il problema degli Anelli del Potere è proprio questo: non può o non vuole comprendere il materiale di partenza – materiale già alquanto striminzito, dal momento che Amazon detiene i diritti di sparute porzioni dell’opera tolkieniana – e, di conseguenza, non riesce a manipolarlo in nessun modo; tuttavia, tenta di stendervi sopra una veste di novità, di archi narrativi inventati ad hoc e persino di puro e semplice fan service allo scopo di celare questa mancata comprensione di fondo. Col risultato che, tolti il budget faraonico, gli effetti grafici obiettivamente stupefacenti e alcune interpretazioni degne di nota, a farne le spese è la storia stessa. Non resta che attendere le prossime puntate e sperare che imprimano un passo più svelto e coerente a una narrazione che, finora, ha proceduto in maniera fin troppo forzata.

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Recensioni delle puntate della Prima Stagione:

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– Episodio 7) Gli Anelli del Potere: note su ”L’Occhio”
– Episodio 6) Gli Anelli del Potere: note sul sesto episodio
– Episodi 4-5) Gli Anelli del Potere: note dopo 5 episodi
– Episodio 3) Episodio 3: arrivano Númenor e Adar
– Episodi 1-2) Gli Anelli del Potere: i primi due episodi

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– Leggi il comunicato di Amazon

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1 Comment to “Serie tv, la recensione dei primi tre episodi”

  1. Davide Perri ha detto:

    Io, sinceramente, non sono cosi contento di questa serie. Avevo alte aspettative per riuscire finalmente a completare la rosa cinematografica dei più grandi capolavori di Tolkien. Purtroppo non mi sento per nulla soddisfatto per la grave mancanza di canonicità e per come vengono gestite le linee di dialogo (imbarazzanti i doppi riferimenti). Restiamo ancora in attesa dei successivi sviluppi.

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