Gli Anelli del Potere:
il quinto episodio

Ed eccoci al quinto episodio degli Anelli del Potere, che ha il sapore di un momento di passaggio tra gli eventi narrati sinora e quelli ancora di là da venire e si concentra in particolare sulle vicende di Khazad-dûm e di Númenor, non senza alcune scene dedicate a Celebrimbor e Annatar e a Galadriel, ora in mano a Adar, che le propone un’insolita alleanza.

 

Timori e tremori nel regno dei Nani

A Khazad-dûm, Durin III (l’ho già detto ma lo ribadisco: l’attore migliore e il personaggio più convincente della serie) inizia a subire l’influsso dell’Anello donatogli da Annatar e Celebrimbor. Grazie ad esso, riesce a “sentire” la montagna come mai prima d’ora, riuscendo in imprese impensate come scavare nuove aperture che riportano la luce solare nel regno sotterraneo o avvertire la presenza di preziosi filoni metalliferi ancora inesplorati; di contro, la sua avidità e la sua brama di ricchezze crescono a dismisura, destando le giuste preoccupazioni del figlio. Una volta tanto, lo show targato Amazon mostra una certa fedeltà a Tolkien nel rappresentare gli effetti degli Anelli del Potere sui Nani, confermando come la linea narrativa di Khazad-dûm sia – al netto di diversi elementi piuttosto deboli – la meno traballante. Certo: gli showrunner calcano un po’ la mano quando il sovrano di Khazad-dûm, non ancora soddisfatto, convoca gli altri signori nanici offrendo loro gli altri Anelli in cambio di un’esosa gabella e impone persino un “tributo dell’Anello” sui suoi sudditi; inoltre, fa storcere il naso che tutto il discorso sembri ridursi a uno strano dramma familiare tra Durin padre e figlio, ma evidentemente non si può chiedere di più allo show.

Interessante è, infine, la scena in cui Disa (Sophia Nomvete) avverte la presenza del balrog tra gli anfratti più oscuri di Khazad-dûm. Il fato del reame nanico si prepara ad essere scritto. Vedremo dove la serie andrà a parare.

 

Bizantinismi númenóreani

A Númenor, frattanto, Pharazôn consolida il potere usurpato (sfruttando un segno celeste, l’apparizione dell’Aquila di Manwë, che ancora resta senza spiegazione) e dà avvio a dure repressioni nei confronti dei Fedeli, sui quali ha fatto ricadere ad arte la colpa del disastro militare nella Terra di Mezzo. Questa atmosfera da Caporetto, tale da determinare un vero e proprio rovesciamento di potere, mostra una volta di più tutta l’insufficienza della scrittura nella serie: Númenor, infatti, dovrebbe essere una potenza di dimensioni e forza pressoché ineguagliate nella lunga storia di Arda (che pure non lesina in fatto di possenti eserciti e grandiose battaglie) ma la prima stagione ha mostrato l’esercito númenóreano tutt’al più come una sparuta compagine, uno spento ricordo delle imponenti armate viste nel Signore degli Anelli (le quali, al confronto, avrebbero dovuto impallidire). Gli showrunner hanno, perciò, compiuto l’errore opposto rispetto alla trilogia jacksoniana dello Hobbit: se questa, nella sua condizione – per certi versi paradossale – di prequel narrativo e sequel cinematografico, ha giocato troppo al rialzo nella rappresentazione della Battaglia dei Cinque Eserciti, finendo per conferirle proporzioni paragonabili a quella dei Campi del Pelennor, negli Anelli del Potere – non si sa se per una precisa scelta di scrittura (ingiustificabile alla luce della storia narrata) o per limiti tecnici (ugualmente imperdonabili alla luce del budget faraonico) – pare invece si sia giocato troppo al ribasso, costringendo l’enorme potenza di Númenor in quella che pare sì e no una schermaglia. Ne consegue che il dolore di un’intera popolazione per una sconfitta sì, cocente, ma tutto sommato di modeste dimensioni appare decisamente fuori misura.

Sta di fatto che la linea narrativa di Númenor assume sempre più i contorni di un gioco di troni in puro stile G.R.R. Martin, tra congiure di palazzo, sommarie repressioni del dissenso e altre amenità simili che trovano una certa amplificazione nell’atmosfera vagamente “bizantina” (tangibile nelle architetture ma anche nell’abbigliamento, in particolare del Re dorato e dei suoi accoliti) che gli autori hanno conferito al regno degli Uomini. Elendil ed i suoi sono, neanche a dirlo, i primi ad essere colpiti dal regio repulisti e si vedono costretti a rinunciare ai propri incarichi nella flotta númenóreana. La scena in cui il futuro fondatore di Arnor e Gondor, ormai esautorato, viene salutato dai propri uomini mostra tutta la dabbenaggine degli showrunner, incapaci di inventarsi qualcosa di diverso dal più vieto “Oh capitano, mio capitano”, proposto e riproposto praticamente in tutte le salse. Allo stesso modo, la scena dell’irruzione delle guardie reali nel tempio dei Fedeli, con la distruzione della reliquia (?) e la telefonatissima uccisione del fido Valandil da parte dell’imbelle Kemen, è tutta una riproposizione di cliché dalla quale non emerge, non dico la capacità, ma proprio l’interesse degli autori ad aggiungere farina del proprio sacco.

Un problema narrativo che si impone con sempre maggior forza man mano che lo show va avanti è quello legato ai Palantíri. Negli scritti di Tolkien, il potere delle pietre veggenti consiste essenzialmente nella capacità di comunicare tra loro a grandi distanze e di gettare sguardi su cose e luoghi lontani. Nel Signore degli Anelli, si legge che «i palantíri vengono da Eldamar, al di là dell’Occidenza. Li hanno fatti i Noldor. Forse Fëanor in persona li ha forgiati, in giorni così lontani che non è dato misurarne il tempo in anni» (III, xi). Si apprende, inoltre, che delle sette pietre veggenti portate nella Terra di Mezzo da Elendil dopo il disastro di Númenor, quelle di Osgiliath, Amon Sûl e Annúminas andarono perdute nei lunghi secoli della Terza Era, quella di Elostirion fu custodita da Círdan per salpare infine verso Occidente e quella di Minas Ithil, dopo la conquista della torre da parte di Sauron, fu portata a Barad-dûr e corrotta: è solo per questo motivo – e non per un intrinseco potere delle pietre – che Saruman e Denethor poterono entrare in contatto con l’Oscuro Signore attraverso i Palantíri di Orthanc e di Minas Tirith, con le funeste conseguenze note a tutti. Quel che però Il Signore degli Anelli rende chiaro è che le pietre veggenti non sono né buone né cattive per se: sono mirabili strumenti il cui utilizzo volge al male solo a causa delle macchinazioni di Sauron. Nello show targato Amazon, invece, sembra esistere un unico Palantír (utilizzato da Míriel e poi accaparrato da Pharazôn) che ha un potere di visione decisamente diverso da quelli dei romanzi, un potere che offre alla regina reggente di Númenor una visione del fato funesto dell’isola, e soprattutto sembra esercitare già di per sé un’influenza negativa sui personaggi. Gli showrunner, dunque, proiettano all’indietro uno stato di corruzione di qualcosa che, nel tempo in cui la serie è ambientata, non dovrebbe contenere alcun male in sé: così, il tema della corruptio optimi, fondamentale in Tolkien, è definitivamente eliminato.

 

L’Executive drama di Celebrimbor

Le scene ambientate nell’Eregion sono, tanto per cambiare, le più problematiche dell’episodio. La collaborazione tra Annatar e Celebrimbor inizia a scricchiolare ma non per il motivo più ovvio. Mentre giungono le prime avvisaglie di un “malfunzionamento” degli Anelli nanici, il sapiente maestro elfico continua a non avvedersi di essere girato e rigirato a piacimento da Sauron. Anche i suoi brevi momenti di lucidità («È un tuo gioco, vero?», dice ad un certo punto al Signore dei Doni, «Piantare semi nelle menti degli altri per poi convincerli che il frutto nasce da un loro pensiero») non comportano nessuna vera presa di coscienza di quanto ormai appare ovvio dinanzi agli occhi di tutti. Egli tutt’al più crede che Annatar trami per convincerlo a forgiare gli Anelli degli Uomini e, neanche a dirlo, infine accetta. Anzi, non solo accetta ma vagheggia che i Nove debbano costituire – «la perfezione dei Tre. Tre volte perfetti». Per il resto, il grande fabbro elfico rimane del tutto sordo agli avvertimenti che vengono praticamente da chiunque: Durin lo invita a diffidare di Annatar guardando agli effetti tutt’altro che positivi dei Sette Anelli nanici, ma nulla; un’elfa della forgia indossa inavvertitamente (?) uno dei Nove, scorge un essere di fiamme nel mondo dell’ombra e dice chiaramente: «Credo che sia stato qui. Credo che sia stato qui tra di noi tutto il tempo», ma ancora nulla; lo stesso Annatar – vuoi per un sottile gioco sadico vuoi per semplice snervamento di fronte a tanta ingenuità – gli sussurra mellifluo: «Sei un maestro nel manipolare i metalli ma stai attento che qualcuno non manipoli te». Più chiaro di così… Ma Celebrimbor, più pervicace del mithril, replica convinto: «Vedi daghe dove non ce ne sono». A questo punto è impossibile non fraternizzare con Sauron e sperare che schiacci al più presto un simile idiota. Del resto, la dabbenaggine sembra di casa in quel dell’Eregion: Annatar non ha di meglio da inventarsi se non che l’essere di fiamme intravisto dall’elfa altri non è che Celebrimbor, “indebolito” dopo la forgiatura degli Anelli, poi osserva languido la malcapitata e, in quel che sembra un maldestro tentativo di seduzione, le confida che “gli ricorda lei”, cioè Galadriel. E qui, tralasciando il cringe di questa specie di romance che più tirata per i capelli di così non si potrebbe, capiamo che ci troviamo davvero in un mondo fantastico, perché in quello reale una donna che subisse una simile avance come minimo alzerebbe i tacchi.

Il problema, sempre più chiaro, è che una volta ancora l’alterità del Mondo Secondario di Tolkien rispetto al nostro Mondo Primario è totalmente appiattita e i personaggi parlano e agiscono come se vivessero nel nostro tempo e ragionassero secondo i nostri schemi di pensiero. Celebrimbor sembra sempre meno un sapiente artigiano che uno stereotipo di CEO da Executive drama, interessato più alla “riuscita” del suo prodotto che all’arte per realizzarlo e capace, al primo fallimento, solo di prendersela coi dipendenti minacciando persino dei tagli mentre questi, intanto, guardano speranzosi al nuovo manager rampante che in gran segreto trama la propria ascesa. Sembra quasi di vederlo, Annatar, mentre sogna il suo ufficio all’ultimo piano con finestre ad angolo e poltrone in pelle umana di memoria più fantozziana che tolkieniana… D’altro canto, quando Celebrimbor parla di «nuovi disegni, nuove leghe, nuova procedura» sembra di trovarci catapultati in una riunione d’azienda con l’immancabile boss “visionario” che parla del prossimo prodotto da lanciare sul mercato.

Frattanto, Gil-galad rimane imperterrito persino quando riceve da Elrond la conferma dei piani Sauron. Anche adesso, l’Alto re non agisce in alcun modo perché a suo parere la minaccia da fronteggiare è quella di Adar. Non si pretende che debba per forza commissariare l’Eregion, per carità, ma quantomeno potrebbe inviare, che so, un piccione viaggiatore per informare Celebrimbor che il suo socio lo sta fregando… Ma tutto tace.

Infine, Adar – proprio lui, quello che tutti sembrano ostinarsi a considerare il public enemy n. 1 – chiede a Galadriel di stringere un’alleanza contro Sauron. Del resto, le ultime puntate hanno già mostrato come il Signore-Padre voglia la pace per sè e per questi orchi che improvvisamente vogliono vivere per conto proprio e indisturbati manco fossero rubicondi hobbit. Quello che vorrebbe essere un geniale plot twist – ma ricorda più che altro la celebre gag dei Griffin sul romanzo di Brian: “amici che diventano nemici, nemici che diventano amici…” – suona appiccicaticcio, come se già si intuisse che non si tratta che di un riempitivo per giustificare qualche puntata di uno show che dovrebbe arrivare addirittura a cinque stagioni. Se son rose…

 

Un mondo che non ha mai avuto luce?

Un prequel dedicato alle storie più antiche della Terra di Mezzo dovrebbe porsi come obiettivo mostrare lo splendore di ciò che è stato quando ancora era nel pieno della sua potenza e della sua bellezza, prima della decadenza dovuta alle macchinazioni di Sauron. Questa è, in fondo, una delle poche forme di fedeltà a Tolkien del tutto imprescindibili e non negoziabili. Quindi, ad esempio, vedere i Palantíri utilizzati semplicemente per il loro scopo originario da personaggi genuinamente positivi avrebbe potuto essere un’ottima idea per mostrare una delle tante opere meravigliose dell’Arte rovinate dall’Oscuro Signore. Ma la strada seguita dagli showrunner non è quella dalla luce (pur con germi d’ombra) all’oscurità (pur con scintille splendenti di bellezza ed eroismo). Lo si è visto sin dalla prima puntata degli Anelli del Potere: perfino nella perfezione splendente di Valinor, ecco i bimbi degli Eldar bullizzare Galadriel e Finrod confidarle quella insulsa tiritera sull’attraversare le tenebre per giungere alla luce. Ecco la visione degli showrunner: una scala di grigi monotona come una parete di cemento armato. Così, l’unico Palantír visto finora nello show viene presentato come un’opera già pericolosa in sè e osteggiata dalla gente di Númenor: e proprio qui, Gli Anelli del Potere mostra tutta la sua dipendenza non da Tolkien ma da Jackson, faticando per offrire qualcosa di immediatamente riconoscibile rispetto alla trilogia del Signore degli Anelli e ottenendo il solo risultato di creare la visione di un’Arda “decaduta” che, perfetta e conforme all’opera tolkieniana quando si parla della fine della Terza Era, appare inammissibile nel cuore della Seconda. Non assistiamo, perciò, a una progressiva corruptio optimi, a un lento degradare da uno stato di perfezione (per quanto relativa) a uno di decadenza, a un mondo che perde progressivamente la luce, bensì a un’ininterrotta sequela di azioni poste sotto il segno del già decaduto, del macchiato, dell’impuro, a un mondo che non ha mai avuto luce. Che è quanto di meno tolkieniano esista.

Quanto questo appiattimento del Mondo Secondario sul Mondo Primario sia una mossa convincente, lo possono dire gli ascolti, ormai in forte calo. Secondo Variety, infatti, dal 6 al 12 settembre Gli Anelli del Potere ha totalizzato “solo” 372,7 milioni di minuti guardati, segnando un calo dell’audience del 51% rispetto alla settimana precedente e piazzandosi al quarto posto degli show più guardati dietro a serie decisamente meno ambiziose sul piano economico come Selling Sunset (586,7 milioni), The Secret Lives of Mormon Wives (781,1 milioni) e The Perfect Couple (3,8 miliardi).

D’altro canto, gli showrunner sembrano più che mai convinti della bontà del loro operato e non paiono curarsi affatto delle voci di dissenso tutt’altro che sparute: «I membri della Compagnia hanno dovuto proteggere se stessi e coloro che li sostenevano e ricordare per cosa combattevano», ha affermato J.D. Payne in un’intervista all’Hollywood Reporter, «e quando vediamo che milioni di persone guardano lo show e rispondono in modo così positivo, ecco per chi combattiamo. E per quelli che guardano ogni episodio e ne scrivono [negativamente] sui social media e realizzano video su YouTube, siamo felici di avere anche voi ragazzi. Non sarebbe un viaggio attraverso la Terra di Mezzo senza alcuni troll lungo il percorso». Ai lettori l’intepretazione di queste parole.


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