Eccoci giunti al tanto atteso finale di questa seconda stagione de Gli Anelli del Potere: un episodio che raccoglie le linee narrative e prepara la strada per una terza stagione sulla quale, al momento, Amazon MGM Studios mantiene il più stretto riserbo. La narrazione è a tratti incalzante, i bei momenti non mancano ma alcune scelte di scrittura restano fin troppo approssimative.
Qualcuno pensi ai Balrog
Le prime scene dell’episodio sono ambientate a Khazad-dûm e confermano una volta di più come quella dei Nani sia la linea narrativa più efficace dello show. Re Durin, ormai in preda alla follia dell’Anello, ha fatto fuori chiunque cercasse di opporglisi o anche solo di ricondurlo alla ragione e continua imperterrito a scavare e scavare. Il figlio lo raggiunge, armato di ascia, nelle profondità della miniera ma non riesce ad alzare l’arma contro di lui: i dialoghi sono un po’ troppo sovraccaricati di pathos, troppo giocati su quella dialettica padre-figlio che sembra costituire una ragione vitale per gli autori ma la scena che segue è probabilmente la migliore che lo show abbia offerto fino a questo punto. Il re, apparentemente sordo alle parole del figlio, infine riesce a praticare un’apertura nella roccia che svela una voragine ricolma di ricchezze inimmaginabili. Ma al momento di stupore e gioia e al dialogo che lo guida (dialogo che, se sviluppato meglio, avrebbe offerto – anche in una chiave di rilettura moderna di Tolkien – un’utile riflessione sul rapporto tra l’uomo e le risorse naturali di questo mondo), segue il puro terrore: il Balrog sorge in tutta la sua funesta maestà e si avventa contro i due. E qui assistiamo a un pezzo di consumata bravura di Peter Mullan che conferma quanto ho detto e ripetuto: non è solo il miglior attore della serie, è anche il miglior Nano tolkieniano mai rappresentato. La scena in cui, tornato in sé, ammette le proprie colpe e saluta il figlio come nuovo sovrano di Khazad-dûm per poi avventarsi sul Balrog è uno spettacolo per gli occhi e riesce davvero ad emozionare. Per un attimo, si respira «quella teoria del coraggio che costituisce il grande contributo dell’antica letteratura del Nord» di cui parla Tolkien nel saggio su Beowulf: mostri e critici. Se solo tutto lo show si fosse mantenuto su questi livelli…
Vorrei davvero esaurire qui il mio commento a questa splendida scena ma purtroppo c’è dell’altro. Anzitutto, il design del Balrog – lo si era già visto nella precedente stagione – è esattamente uguale a quello visto nel Signore degli Anelli di Peter Jackson: spettacolare, certo, ma lontano dalle parole di Tolkien. E questo, a mio avviso, è un problema. Non fraintendetemi, non si tratta di una questione di precisione filologica: quel Balrog cinematografico funzionava eccome nella trilogia originale e, per certi versi, funziona pure adesso; eppure la scelta di design degli autori della serie mostra una volta di più la loro incapacità di emanciparsi dall’estetica jacksoniana o, per dir meglio, la loro mancanza di interesse o di coraggio nel proporre una visione ambiziosa capace di modificarla o, perché no, di superarla. Tutt’al più, vi apportano una lievissima modifica – le ali della creatura non sono di fuoco ma di fumo od ombra – ma è davvero poca cosa, specie considerando che i mezzi tecnici all’avanguardia avrebbero permesso di ottenere un risultato di tutto rispetto anche esplorando altre forme di rappresentazione. Del resto, la grandiosa immagine di Durin che si lancia contro il demone è fin troppo simile a quella di Jack Sparrow che si avventa contro il Kraken in Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma. Insomma, la scena migliore vista finora in Gli Anelli del Potere suona troppo di derivativo. Si obietterà che ormai è impossibile non riproporre scene e tropi narrativi già visti, ed in parte concordo; eppure sarebbe bastato davvero poco per immaginare qualcosa di diverso affinché un momento così esaltante non si adagiasse sulla facile sicurezza di immagini già sperimentate da altri.
A causa dello stravolgimento cronologico apportato dagli autori, peraltro, la precoce apparizione del Balrog rischia di entrare in conflitto con la narrazione proposta dalla serie stessa, perciò è prontamente messa da parte. Nel legendarium, si sa, il risveglio della creatura (che avviene solo nel 1980 TE) pone quasi all’istante la parola fine a Khazad-dûm. Qui, invece, è come se nel regno nanico nessuno si ponesse il problema di questo scomodo inquilino. Persino Durin figlio, che l’ha visto coi propri occhi, non sembra curarsene quando propone di offrire riparo ai profughi dell’Eregion ed è solo Disa – una compagna devota e una consigliera affidabile improvvisamente trasformatasi nel peggior stereotipo della moglie opprimente – ad opporsi a questo proposito: «Abbiamo problemi per conto nostro, amore mio». Ma i problemi di cui parla sono gli altri signori nanici che, dopo aver speso una fortuna per i tesori di Khazad-dûm, adesso battono cassa ed il fratello di Durin che mira al trono. Insomma, l’idea che il Balrog sia stato risvegliato e subito dopo rinchiuso dietro un esile muro di roccia e dimenticato non regge proprio. In una recente intervista per Vanity Fair, Patrick McKay afferma in proposito: «Quando si pensa alle catastrofi che mettono fine alle società, molto spesso non si verificano tutte in un colpo solo. È un processo. Due passi avanti, uno indietro, due avanti, uno indietro. Che si pensi alla caduta dell’Impero romano o al cambiamento climatico, sono cose che accadono in un lungo periodo». Giusto, ma nel caso di Khazad-dûm non si parla del fisiologico decadimento di una società: questa dinamica sarebbe stata adatta, semmai, alla linea narrativa di Númenor nella quale, però, gli autori non hanno saputo o voluto mostrare il graduale passaggio dallo splendore alla decadenza, optando unicamente per quest’ultima. Khazad-dûm non cade per cause interne, viene letteralmente spazzata via dal demone del mondo antico. Presentare quest’ultimo come una sorta di metafora del declino delle grandi potenze è davvero un torto eccessivo. Povero Balrog!
I piagnistei di Sauron
Mentre l’Eregion cede sotto la forza dell’esercito di Adar, Galadriel fugge con i pochissimi superstiti di Ost-in-Edhil ma, scoperta da un pugno di orchi, offre loro i Nove Anelli per la salvezza degli altri Elfi. Suona strano che la protagonista, solitamente così pronta al combattimento, proprio adesso che la posta in gioco è così alta tenti di scendere a patti con gli Uruk, ai quali nulla impedirebbe di uccidere tutti e prendere gli Anelli. Forse la dama elfica fa affidamento sulla cavalleria di Adar, forse sulla propria adamantina plot armour, non si sa. Sta di fatto che gli orchi accettano lo scambio.
Nella forgia, frattanto, Sauron si esercita al tiro con l’arco usando Celebrimbor come paglione. «Guarda», gli dice, «in che stato ti sei ridotto [Look what you have done to yourself]», tanto per ribadire quella dinamica da amore tossico di cui avevo già parlato. Sebbene le maschere siano cadute, egli continua a sostenere che il suo unico desiderio è condividere le «meraviglie di quest’Era» con il mondo, salvo poi minacciare il fabbro elfico di torture e morte. Ma Celebrimbor ormai è lanciatissimo, così afferma che Sauron è schiavo degli Anelli e addirittura lancia una profezia: «Gli Anelli del Potere ti distruggeranno e alla fine, io prevedo, uno solo dimostrerà la tua completa rovina». Così, l’Oscuro Signore lo uccide (finalmente!), versando pure una lacrima non so se per aver freddato l’ex socio o per averne udita la rivelazione. Nell’intervista per Vanity Fair, McKay commenta: «Penso che Sauron sia schiavo della propria ambizione. Celebrimbor sa che la volontà di Sauron è legata agli anelli e questo accade a tutti noi in un certo modo, giusto? Se siamo maniaci del lavoro, pensiamo che il nostro lavoro ci dia la capacità di uscire e controllare il mondo ma no, siamo davvero schiavi del nostro lavoro. Siamo schiavi di ciò che ci guida. Sauron è così motivato che Celebrimbor sa che non sarà mai in grado di scappare. Dice: «Prevedo la fine. Un solo anello porterà alla tua completa rovina», ed è ciò che avverrà. Sauron alla fine riversa così tanto sé stesso in queste creazioni che la sua stessa esistenza diventa legata ad esse. Quando Frodo e Gollum, impigliati insieme, finiscono per far cadere l’Anello nella lava, questo distrugge Sauron. Celebrimbor può in un certo senso vederlo profeticamente». Tralasciando che la distruzione dell’Anello, posta in questi termini, appartiene solo al film di Peter Jackson (a ulteriore conferma di quale sia il vero riferimento degli showrunner), questa lettura di Sauron mi sembra a dir poco semplicistica e tutt’altro che chiarita dal paragone tra l’Oscuro Signore e un qualsiasi maniaco del lavoro. Non c’è dubbio che nel Legendarium egli sia un personaggio complesso, tanto accecato dalla brama di potere da determinare la propria rovina. Ma pretendere di rappresentarne la complessità facendolo piangere e contraddire o inserendo un’impossibile romance con Galadriel semplicemente non funziona.
Ma non ci perdiamo in riflessioni. Arriva già un orco che con timore e tremore chiede ad Annatar se egli sia davvero Sauron e lui replica con il solito ritornello «Io ho molti nomi».
Frattanto, Galadriel viene scortata alla presenza di un Adar che, grazie a Nenya, ha riacquistato il suo aspetto originario, tanto da far sospettare che non sia il mithril bensì l’acido ialuronico il vero ingrediente segreto degli Anelli del Potere. Il Signore-Padre degli Uruk, esacerbato dal combattimento che egli stesso ha voluto, restituisce l’Anello all’Elfa e le propone nuovamente un’alleanza («Mai più farò la guerra alla Terra di Mezzo»); lei replica con la solita umiltà («Io ho ucciso più tuoi figli di qualunque elfo vivente», come no!) ma lui la perdona, esprimendo propositi di pace e unità che però hanno vita breve: sul più bello, gli orchi lo tradiscono e ne fanno strage, mentre Sauron sopraggiunge per reclamare ciò che è suo. Ma come, gli Uruk non volevano pace e sicurezza? E ora fanno fuori l’unico che poteva garantirla per inchinarsi a uno che li tratta come carne da cannone? Cosa ha promesso loro Sauron? Il potere? La gloria? La settimana corta? La tredicesima? Boh! Così, diciamo addio al povero Adar, un personaggio la cui parabola tra le due stagioni sembra approntata alla totale inutilità narrativa o, tutt’al più, al riempimento di preziosi minuti. E con lui muore, temo, anche ogni idea di “umanità” degli Orchi.
Questi ultimi, nel frattempo, seminano distruzione a Ost-in-Edhil, e non si fanno mancare nemmeno una bella Bücherverbrennung che fa tanto Germania 1933. Dando prova di tutta la sua dabbenaggine, Elrond li implora di risparmiare dalle fiamme l’archivio di Celebrimbor («Il suo valore va oltre i gioielli e persino il sangue. Prendi le nostre vite, lascialo stare, ti supplico»). Stavolta, quantomeno, gli orchi si comportano da orchi e se ne infischiano: del resto, perché mai dovrebbero mostrare riguardi verso un nemico oramai alla loro mercè? A fermarli, però, sono i Nani e un Arondir che – magari mi sono perso qualcosa io – sembra miracolosamente tornato in vita.
E finalmente arriva il tanto atteso confronto tra Galadriel e Sauron che, scorto Nenya al dito dell’elfa, lo vuole per sé. Pochi scambi di colpi in una coreografia non certo memorabile e l’Oscuro Signore trafigge l’elfa con la corona di Morgoth, non senza concedersi un istante per fare il sentimentale e rilanciare quella romance su cui gli autori hanno puntato tanto («Avrei messo una corona sulla tua testa, non mi sarei mai fermato finché tutta la Terra di Mezzo non si sarebbe [sic!] messa in ginocchio per venerare la luce della sua regina»). Galadriel, ormai sconfitta, si lascia cadere giù da un dirupo (credo che gli showrunner abbiano un kink per i salti nel vuoto). Come questo renda impossibile a Sauron recuperare l’Anello elfico in una città brulicante di orchi, non è dato sapere; di certo, dà modo a Gil-galad ed Elrond di utilizzare Vilya e Nenya per guarire la protagonista (di nuovo, gli Anelli diventano strumento per un Force healing in stile trilogia prequel Star Wars). Di lì a poco, i superstiti dell’Eregion riparano in una valle segreta e assistiamo all’atto di fondazione di Imladris in quel che vorrebbe essere un momento epico ma è sciupato dalla scarsissima presenza scenica di Gil-galad, che proprio qui dovrebbe avere la parte del leone ma non riesce a spiccare (sia chiaro, Benjamin Walker ne è del tutto incolpevole).
Trovare (male) un bastone e un nome
Ancora alla ricerca del suo bastone, lo Straniero si ritrova chissà come o perché nel villaggio degli Sturoi. Qui sopraggiunge anche lo Stregone Oscuro, il quale si qualifica come uno dei cinque Istari ed afferma che è stato proprio l’apprendista Stregone a convincerlo a lasciare l’Occidente per venire in aiuto della Terra di Mezzo. Ora, gli si rivolge chiamandolo «vecchio amico [old friend]» e, usando parole melliflue, presenta come un bene o un male necessario le proprie azioni; infine, gli propone di unirsi a lui per sconfiggere Sauron e prenderne il posto. Lo Straniero non cede e il misterioso personaggio lo incalza: «Perdere coloro che ami di più ti darà un assaggio della sofferenza che tutta la Terra di Mezzo conoscerà se Sauron risultasse vittorioso». Così fa crollare il fianco della montagna sui poveri proto-hobbit e si eclissa ma il caparbio protagonista dà fondo alle proprie risorse interiori e tira fuori un Force lift imparato così in fretta da far morire d’invidia Rey Skywalker. Al sorgere del sole, il villaggio degli Sturoi è distrutto e questi sono costretti ad abbandonarlo; Nori e Poppy decidono di seguirli così la loro strada e quella dell’Istar si separano, almeno per il momento. Questi però, tra i detriti del villaggio, trova finalmente il suo bastone. Così, fa ritorno alla dimora di un Tom Bombadil mai così Olivander («Uno Stregone non trova il suo bastone, esso trova lui»): ha infine compreso che la prova non consisteva nello scegliere il dovere (ovvero il potere) a discapito dell’amicizia bensì il contrario. E superandola ha trovato molto di più di quel che cercava: non solo il bastone, anche il proprio nome. Gli Sturoi, infatti, lo hanno salutato rivolgendoglisi come “Grand’Elfo [Grand-Elf]” e da lì a Gandalf il passo è breve. Se si è duri d’orecchio, beninteso.
Su questo punto occorre soffermarsi. Tolkien dichiara che il nome Gandalf (insieme a quelli dei Nani de Lo Hobbit) proviene dal Dvergatal, il “catalogo dei nani” contenuto nella Vǫluspá, il primo e più famoso dei carmi eddici (cfr. ad es. Lettere, n. 25); qui, infatti, è citato un Gandálfr il cui nome non ha nulla a che vedere con le dimensioni fisiche o morali del personaggio ma significa precisamente “Elfo col bastone” (si confronti il norreno ‘gandr’ con l’inglese ‘wand’). Sempre nell’intervista per Vanity Fair, McKay afferma: «Questa è l’etimologia: “l’elfo col bastone”. Le cose che ricordano il suo nome gli risuonano nella mente a poco a poco nel corso della stagione. Quando emerge come personaggio – chi sono io, cosa è importante per me – allora la risposta è proprio lì ad aspettarlo». Ora, l’idea che certe assonanze possano ricordare allo Straniero il nome Gandalf non regge alla luce del Legendarium. Questo, infatti, è solo uno dei molti nomi attribuitigli in seguito dai popoli della Terra di Mezzo presso cui si troverà a risiedere o frequentare durante i molti suoi viaggi: ad esempio, tra i Nani è noto come Tharkûn (“Uomo col bastone”), tra gli Elfi come Mithrandir (“Grigio Pellegrino”), tra gli Haradrim come Incánus (“Spia del Nord”) etc. L’unico nome di cui possa aver perduto e poi recuperato la memoria è semmai Olórin («Olórin ero in gioventù nell’Ovest ormai dimenticato», Il Signore degli Anelli, IV, v; cfr. Racconti Incompiuti, IV, ii). Che egli ricordi di chiamarsi Gandalf, dunque, è un vero e proprio cortocircuito narrativo. Agli autori della serie sarebbe bastato realizzare una scena in cui, dopo aver trovato il bastone, egli fosse stato salutato dagli Hobbit come “Wand-Elf” (non precisissimo dal punto di vista linguistico ma molto più assonante di quanto lo sia “Grand-Elf”): oltre ad essere corretto sul piano etimologico, ciò avrebbe mostrato in maniera originale e persino coerente col Legendarium l’origine (non la reminiscenza) di questo nome e avrebbe peraltro sottolineato l’importanza narrativa del bastone. Ma nulla!!!
Un’ultima annotazione riguarda l’identità dello Stregone Oscuro. Inutile nasconderlo: ogni particolare nella sua caratterizzazione fa subito pensare a Saruman, con tutti i problemi di continuità narrativa che ciò comporterebbe. In effetti, la sua voce profonda (a tratti sembra proprio che Ciarán Hinds imiti l’immenso Christopher Lee), la sua retorica sottile, il suo rivolgersi a Gandalf come «vecchio amico» sembrano indizi costruiti ad arte per far pensare agli spettatori subito allo Stregone Bianco. Ma ci pensa McKay a rassicurare tutti: «Il destino dello Stregone Oscuro non è deciso e il suo nome non è ancora uscito, ma se fosse Saruman quasi sfiderebbe le leggi della gravità e della fisica». Lo showrunner ci tiene a precisare che lui e il suo socio non stanno creando dei rompicapi per il puro piacere di far arrovellare i fan, no. Ma ditemi voi: se non è questo, qual è lo scopo di creare una “falsa pista” sull’identità di un personaggio? E ciò non vale solo per il simil-Saruman ma anche per lo Straniero (se ricordate, nella prima stagione, gli autori avevano disseminato maldestri indizi per far credere che si trattasse di Sauron e non di Gandalf). Dunque, escludendo Saruman e scartando i Nazgûl (tra i quali non si annoverano Istari), dietro il misterioso Stregone Oscuro potrebbe celarsi Radagast o, molto più probabilmente, uno dei due Stregoni azzurri. Una simile identificazione potrebbe trovare un appiglio nelle riflessioni di Tolkien sullo spostamento di questi ultimi nel Rhûn e nell’Harad e sul (supposto) traviamento che li ha resi «i fondatori o gli iniziatori di culti segreti e tradizioni “magiche” che sopravvissero alla caduta di Sauron» (cfr. Lettere, n. 211). Qualcuno potrebbe citare, inoltre, alcuni appunti raccolti in The Peoples of Middle-earth (II, xiii) che retrodatano alla Seconda Era il loro arrivo nella Terra di Mezzo: «The “other two” [Wizards] came much earlier, at the same time probably as Glorfindel, when matters became very dangerous in the Second Age». Ma questi appunti, appartenenti a una revisione del Legendarium molto tarda e mai portata a termine dall’autore, non trovano conferma né nel Signore degli Anelli (cfr. Appendice B), che pone l’arrivo di tutti gli Istari intorno al 1000 TE, né nel Silmarillion (V), in cui si legge che «Curunìr era il maggiore di età, quello giunto per primo. Era stata poi la volta di Mithrandir e di Radagast e di altri Istari che si recarono nelle regioni orientali della Terra-di-mezzo e che non hanno parte in queste cronistorie». Se, insomma, lo Stregone Oscuro fosse davvero uno degli Stregoni blu, ci troveremmo senza meno di fronte all’ennesima “licenza poetica” che gli showrunner si sono concessi.
Il Ritorno del Re (ma fatto male)
A Númenor, Ar-Pharazôn si cava d’impaccio dalla pessima situazione in cui si è infilato da solo affermando che Míriel ha superato l’ordalia del Verme del Mare non grazie ai Valar ma a Sauron, del quale sarebbe l’alleata. Non è dato sapere come egli abbia appreso della reale identità di Halbrand, visto che si tratterebbe di un segreto ancora noto a pochissimi: ipotizzo che il Palantír abbia accesso ai contenuti esclusivi Amazon Prime e che il sovrano non si sia perso nemmeno una puntata de Gli Anelli del Potere. Come che sia, con questa abile mossa Ar-Pharazôn bandisce i Fedeli (non lo aveva già fatto?) e la povera Eärien corre ad avvisare Elendil, che nel frattempo pare abbia trovato lavoro come cameriere (in nero, a giudicare dalla velocità con cui si eclissa all’arrivo dei soldati, manco fosse un’ispezione della Finanza). Così, il nobile capitano si reca dalla regina detronizzata per organizzare una fuga (d’amore) ma lei è decisa a rimanere al proprio posto e congeda l’uomo, non prima di avergli donato Narsil («Rivendica il titolo che ti spetta e, con questa spada, il tuo destino») in una scena che è l’esatta replica di quella in cui Elrond offre Andúril ad Aragorn. Citazione? Omaggio? Plagio? Nel migliore dei casi, si tratta del più becero fan service, nel peggiore di un’ulteriore riprova della volontà degli autori di rimanere nel comodissimo solco scavato da Peter Jackson. Va da sé che un altro momento potenzialmente centrale nell’economia narrativa della serie viene sciupato da una scrittura approssimativa e manieristica che preferisce sedere sugli altrui allori che inventare qualcosa di proprio. La linea narrativa di Númenor si esaurisce così in tono minore, con Elendil che fugge zitto zitto di notte mentre Armenelos si prepara all’epurazione dei Fedeli.
Non va però dimenticata l’appendice ambientata a Pelargir. L’episodio finale di questa stagione può permettersi il lusso di sprecare preziosi minuti di narrazione per scavare nel tedioso rapporto amoroso tra Isildur ed Estrid. La giovane si sta costruendo un futuro col promesso sposo ma questa serie non pare disposta a rinunciare a un triangolo borghese che più trito non si potrebbe. Così, dopo l’immancabile bacio, il nobile figlio della Casata di Elros propone alla giovane di fuggire alla chetichella con la prima nave per Númenor. Senonché a sbarcare da quella nave è l’infido Kemen, che porta grandi progetti per trasformare Pelargir in un avamposto militare. La scena in cui Isildur tenta di strappargli un passaggio per Estrid (e per il suo cavallo) davanti al promesso sposo della giovane – che rimane senza nome, tanto è insignificante – è puro cringe e lo è ancor più se si pensa che la dinamica narrativa più importante dovrebbe essere quella dell’epurazione dei Fedeli. Ma tant’è…
Alcune conclusioni
Trovo davvero difficile soppesare i pro e i contro di questa seconda stagione della serie, poiché inevitabilmente la bilancia pende a favore dei secondi. Qualcuno obietterà che in queste pagine ho dato giudizi fin troppo severi per uno show che ha ricevuto comunque ottimi ascolti, qualcuno mi accuserà di faziosità o di mancata comprensione dello “spirito” tolkieniano che traspare dalla serie. Ognuno pensi quel che vuole, ci mancherebbe, ma trovo che le ingenuità narrative, i continui richiami all’immaginario jacksoniano, i montaggi approssimativi e i mezzi tecnici non sempre all’altezza possano essere scusati solo nel caso di una produzione dalle possibilità economiche limitate, giocoforza costretta a fare di necessità virtù. Qui, invece, ci troviamo di fronte alla serie più costosa della storia, che ha dietro una delle aziende più ricche al mondo. Commisurate a un simile investimento, e le sue ambizioni avrebbero dovuto essere ben altre. A che pro scusarne i difetti?
Resta vero che la seconda stagione de Gli Anelli del Potere presenta molti miglioramenti rispetto alla prima: la narrazione è più fluida, il ritmo più incalzante, i dialoghi a tratti meno stucchevoli; finalmente vengono proposte scene di battaglia che, per quanto non perfette, offrono almeno uno spettacolo piacevole; il comparto tecnico mostra (a tratti) consapevolezza dei propri mezzi; alcune interpretazioni sono eccellenti. Tutto vero, chapeau. Continuano ad esistere, però, problemi legati a due aspetti centrali: la scrittura e la caratterizzazione dei personaggi. Le linee narrative dello show appaiono irrimediabilmente compromesse dalle premesse iniziali e i tentativi di risollevarle (ad esempio inserendo Tom Bombadil in quella, fiacchissima, di Gandalf) risultano maldestri. I personaggi, del resto, non hanno quasi alcun appeal e faticano a imprimersi nell’immaginario dei fan. Galadriel continua a essere al contempo insignificante e pretenziosa, Sauron è un villain da operetta, Elrond poco più che una spalla e Gil-galad non ha un’ombra della regalità e della potenza che dovrebbero contraddistinguerlo, specie considerando il suo ruolo futuro; lo stesso vale per Elendil, che sembra una specie di Massimo Decimo Meridio quando dovrebbe essere più che altro un Enea, mentre Ar-Pharazôn è tutt’al più uno stereotipo del tiranno usurpatore; quanto a Gandalf, c’è poco da dire se non che questa ossessione tutta hollywoodiana per le backstory ha davvero stancato.
Azzardo un’ipotesi ma prendetela, come tale, con le pinze: potrebbe darsi che questa seconda stagione dello show – che, ricordiamolo, è stata annunciata all’improvviso dopo due anni di completo silenzio da parte di Amazon MGM Studios – patisca una post-produzione resa frettolosa dall’imminente uscita dei prossimi progetti di Peter Jackson & Co., il film d’animazione The War of the Rohirrim e il live-action The Hunt for Gollum diretto da Andy Serkis. Forse, senza la pressione di una competizione diretta con il regista che ha letteralmente plasmato l’immaginario moderno della Terra di Mezzo, gli showrunner si sarebbero concessi il tempo necessario per perfezionare il proprio lavoro e offrire una seconda stagione più coerente a livello di trama. Sono solo supposizioni, beninteso, ma resto convinto che l’introduzione di un Tom Bombadil del tutto fuori posto sia stata un’aggiunta tardiva con la quale gli autori hanno tentato di accattivarsi i tolkieniani “duri e puri” e di presentarsi come “più cattolici del papa” (il papa è, beninteso, Peter Jackson).
E qui sorge il problema che ho più volte indicato sopra. Gli Anelli del Potere non si presenta come un prequel alle trilogie jacksoniane, ma nonostante ciò pesca a piene mani da esse. Una furberia che non ripaga gli autori. Se gli unici momenti memorabili di quest’ultimo episodio (le scene di Durin e di Elendil) risultano terribilmente derivativi (direi meglio, parassitari) rispetto ai film del regista neozelandese, come giudicare tutto questo? Credo sia questo il principale fallimento della serie Amazon: un’occasione irripetibile di rifondare un immaginario tolkieniano (chi, se non il colosso di Seattle, avrebbe le risorse per farlo?) del tutto sprecata.
SPECIALE SERIE TV
Recensioni delle puntate della Seconda Stagione:
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Recensioni delle puntate della Prima Stagione:
– Episodio 8) Gli Anelli del Potere: finale di stagione
– Episodio 7) Gli Anelli del Potere: note su ”L’Occhio”
– Episodio 6) Gli Anelli del Potere: note sul sesto episodio
– Episodi 4-5) Gli Anelli del Potere: note dopo 5 episodi
– Episodio 3) Episodio 3: arrivano Númenor e Adar
– Episodi 1-2) Gli Anelli del Potere: i primi due episodi
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Complimenti all’autore per questa serie di recensioni ragionate e ben equilibrate. Sono state un’ottima compagnia, episodio per episodio, alla serie. Personalmente le ho lette volta per volta prima di ogni nuovo episodio, una specie di recappone in chiave critica. Spero di rileggervi alla prossima stagione