Lo Hobbit, confessioni
di un traduttore

Premessa

Lo HobbitEsce oggi in libreria Lo Hobbit, in un’edizione illustrata con gli stessi disegni di Tolkien. Dal punto di vista estetico forse la più bella edizione dello Hobbit mai realizzata. E con una nuova traduzione.
Non avrei mai pensato che potesse essere la mia. Nonostante negli ultimi anni io abbia discusso a iosa della traduzione del Signore degli Anelli realizzata da Ottavio Fatica e di quella storica di Vittoria Alliata, e nonostante studi i testi tolkieniani da quasi vent’anni, non mi sarei aspettato che mi venisse fatta un’offerta del genere. Quando è capitato, la prima cosa che ho pensato è che non avevo alcun titolo per farlo. Troppa poca esperienza di traduzione, troppo senso di inadeguatezza, troppa ansia da prestazione verso un autore amato.
Era un pensiero più che legittimo.
Se ho accettato di ritradurre Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien è essenzialmente per due motivi, egualmente importanti.
Lo HobbitIl primo è proprio che, dopo anni trascorsi a parlare di traduzioni altrui, a polemizzare sul lavoro degli altri, pareva coerente mettermi alla prova in prima persona, mettermi in gioco, accettando di farmi massacrare dal fandom. Perché la cosa scontata – come sa chiunque bazzichi gli ambienti tolkieniani – era che la traduzione sarebbe stata fatta a brandelli, com’era stato per i casi precedenti, a prescindere dalla levatura del traduttore o traduttrice: Alliata con le sue lacune e libertà stilistiche; Jeronimidis Conte con le sue italianizzazioni; Saba Sardi con i suoi abbagli; Fatica con i suoi… “fatichismi”; Giorgianni/Rialti con l’onere di adeguarsi alla nomenclatura di Fatica (lo stesso che avrei avuto io). Indegnamente sarei stato «sesto tra cotanto senno» e avrei ricevuto la mia dose di critiche, sfottò, insulti, nitpicking, ecc. Ma a darmi lo slancio per gettare il cuore oltre l’ostacolo è intervenuta la solida e inesorabile materialità delle cose.
Il secondo motivo per cui ho accettato di ritradurre Lo Hobbit infatti è che mi è stata offerta quasi la cifra esatta che mi serviva per pagare una spesa sanitaria importante. Soldi che in quel momento non avevo. E quando vivi di sola scrittura perché hai avuto la malaugurata idea di non imparare a fare nient’altro nella vita né di fare uno straccio di concorso pubblico (quante sacrosante cazzate si pensano a vent’anni, soprattutto se sono gli anni Novanta), ti può capitare di dover mettere da parte le remore per necessità.
Questo è quanto. Se qualcuno si aspettava del romanticismo può anche smettere di leggere qui. Tanto più che la prima cosa che intendo fare è autodenunciarmi per avere preso braci per bretelle.

Braci per bretelle

Sembra un modo di dire, come “prendere fischi per fiaschi”. Eccolo lì l’errore stupido, da pollo, proprio all’inizio. È il “falso amico” che ti forma un’immagine mentale, quella della brace della pipa tappata con il pollice, perché Bilbo sta facendo gli anelli di fumo. Anche se lo sai che “braci” si dice embers e non braces, e quella scena, di Bilbo che si infila il pollice dietro le bretelle l’hai letta una dozzina di volte. Quella posa l’hai vista nel film di Jackson e rappresentata da fior di artisti, è una delle più famose di Bilbo: pipa in bocca e pollice dietro la bretella. Eppure ti si forma quell’immagine nella mente, quella di lui che tappa la pipa con il dito per ravvivare la brace e sbuffare fuori il fumo e…. invece di tradurre la frase dall’inglese, una frase inequivocabile – «[Bilbo] stuck one thumb behind his braces» -, ti resta bloccato in testa il falso amico e sulla pagina ci finisce quello. Il risultato è che hai modificato un’azione di Bilbo, hai cambiato il testo di Tolkien. Certo alla prima ristampa verrà corretto, ma intanto c’è il tuo zampone, un errore-marchio di fabbrica “Wu Ming 4” che ricorderà a tutti – e al sottoscritto in primis – che le remore non sono mai abbastanza quando si ha poca esperienza. Hai voglia a circondarti dello Hobbit annotato, The History of The Hobbit, vocabolari etimologici, vocabolari cartacei, vocabolari online, traduttori automatici, consulenti madrelingua… niente ti mette al riparo dalla svista che è sempre dietro l’angolo. E per certi versi è giusto che ti sia toccata in sorte, così la hybris manifestata in più di un’occasione nelle discussioni di questi anni potrà essere disintegrata. Redde rationem. Ci sta. Ho premesso che essere fatto a pezzi era nel conto.

Buongiorno

Un altro gancio da tirare per smontare la traduzione si trova sempre lì, nel celeberrimo dialogo tra Bilbo e Gandalf che ha al centro il gioco di parole su “good morning”. Fin da ragazzino non mi era mai tornato il senso di quel dialogo… Se in inglese “good” può stare sia per “buono” sia per “bene”, in italiano appunto abbiamo due parole che esprimono un significato diverso, e a mio avviso andavano usate entrambe per rendere il senso del gioco di parole di Gandalf:

“What do you mean?” he said. “Do you wish me a good morning, or mean that it is a good morning whether I want it or not; or that you feel good this morning; or that it is a morning to be good on?”

Ecco la traduzione che lessi allora, quella di Jeronimidis Conte:

“Che vuol dire?” disse “Mi auguri un buon giorno o vuoi dire che è un buon giorno che mi piaccia o no; o che ti senti buono, quest’oggi; o che è un giorno in cui si deve essere buoni?”

Perché questo risvolto etico? Cosa c’entra l’essere buoni col fatto che è una splendida giornata? Gandalf/Tolkien qui sta giocando con le accezioni della parola “good”, ma riferite allo stato d’animo e alle condizioni ambientali, non al comportamento. È chiaro che per mantenere invariata la parola “buono”, la precedente traduttrice aveva scelto di sacrificare il senso del gioco di parole. Io ho fatto il contrario, ho scelto di far prevalere il senso. Partendo dal fatto che to feel good significa anche sentirsi bene, e to be good on significa passarsela bene, trascorrere bene il tempo, ho tradotto così:

“Cosa intendi?” disse. “Mi stai augurando una buona giornata, o intendi dire che è una bella giornata che io lo voglia o no; o che oggi ti senti bene; o che è una giornata da trascorrere bene?”

Nello stesso passaggio si potrà avvertire anche un’altra differenza rispetto al passato. È quando Bilbo, per due volte, usa come intercalare di cortesia l’espressione «I beg your pardon».
Jeronimidis Conte aveva tradotto: «Vi chiedo scusa». Di conseguenza Gandalf rispondeva con «Sei scusato». [In questo caso non considero la revisione del 2013 di Ciuferri, perché traduceva le due occorrenze con due espressioni diverse, cioè «Ti chiedo scusa» e «Perdonami», privando così di senso la frase di Gandalf sul fatto che Bilbo gli abbia chiesto perdono due volte: «Yes, you have! Twice now. My pardon. I give it you». Non sono l’unico a fare errori marchiani, anche se il male comune non è mai mezzo gaudio]. Io ho reso le due occorrenze rispettivamente con «Ti chiedo perdono» e «perdonami». Questo perché credo che sia proprio il concetto di perdono qui a essere in ballo. La formula di cortesia di Bilbo rivela l’inconscio del personaggio e non è un caso che Gandalf la prenda alla lettera, come se Bilbo avesse davvero bisogno di essere perdonato. Perdonato per essersi dimenticato del sé bambino, del senso di meraviglia davanti al fantastico, della propria madre… Non del tutto, per fortuna, qualcosa riaffiora e su questo, dice Gandalf, si può lavorare: «that is not without hope» e quindi «I will give you what you asked for», «ti darò quello che hai chiesto», cioè il perdono, più che le sue scuse – ego te absolvo… – insieme a una bella spinta fuori dalla porta di casa.
Ho sovrainterpretato? Il gancio è lì, basta tirare. Tanto più che non vado da nessuna parte. E soprattutto, ho appena cominciato a nutrire i troll.

Troll

Nell’originale inglese i Troll parlano cockney. Usano parole storpiate come «tomorrer», «yer», «blimey», «lumme» ed espressioni monche come «’Ere, ’oo are you?» o «what the ‘ell» o ancora antepongono una “a-” davanti ai gerundi, come «a-thinking», «a-arguing», «a-talking».
La traduzione storica non aveva riportato questo aspetto se non blandamente. Io ho calcato la mano, attingendo al mestiere. Nell’Armata dei Sonnambuli, un romanzo di una decina d’anni fa, noi Wu Ming ci inventammo la parlata della plebe parigina di fine Settecento. Un’intera linea narrativa era tenuta dalla voce collettiva del proletariato urbano, con una specie di grammelot che ricorreva a vari dialettismi e storpiature dell’italiano. Non ho proceduto allo stesso modo, ma mi sono ispirato a quello.
Ad esempio:

A William andò tutto di traverso. “Chiudi ‘sta bocca!” disse appena ci riuscì. “Mica puoi pretendere che la gente si ferma qui solo per farsi pappare da te e da Bert. Tra lui e te vi sarete pappati un villaggio e mezzo da quando siam venuti giù dalle montagne. Chevvuoi di più? E c’è stato un tempo che m’avresti detto ‘grazie Bill’ per un bel pezzo di montone ciccio e tenero come ‘sto qua.”

O ancora:

“Mi cecassero, Bert, guarda cos’ho acchiappato!” disse William.
“Che cos’è?” dissero gli altri avvicinandosi.
“Mi venga un colpo se lo so! Chessei?”
“Bilbo Baggins, uno scass… hobbit,” disse il povero Bilbo, tutto tremante, mentre si chiedeva come fare il verso del gufo prima che quelli lo strozzassero.
“Uno scasshobbit?” dissero loro un po’ allarmati. I troll sono lenti di comprendonio, e molto diffidenti di qualunque cosa risulti nuova.
“‘D’ogni modo checcentra uno scasshobbit con la mia tasca?” disse William.

Per la cronaca, a un certo punto avevo ipotizzato di rendere il dialetto cockney con il romanesco, slang della capitale per slang della capitale. Ma l’effetto era quello dei film con Tomas Milian e Bombolo. Non propriamente tolkieniano.

Allitterazioni, arcaismi

A Tolkien l’allitterazione piaceva un bel po’. È vero che è una cosa tipica dell’inglese, in poesia e anche in prosa, e che di per sé in italiano potrebbe anche essere lasciata cadere, ma appunto, conoscendo il nostro professore, sciogliere la lingua gli piaceva, quindi valeva la pena provare.

Un esempio possono essere i due participi riferiti a Bilbo che si affretta ad andare ad aprire la porta di casa: «bewildered and bewuthered». Nella traduzione storica era reso con «sconcertato e sconvolto», che io ho reso con «tutto in subbuglio e imbufalito» esaltando l’aspetto della rabbia di Bilbo che si precipita alla porta («Bilbo rushed along the passage, very angry»), e cercando di mantenere al centro dell’assonanza il suono della lettera “w”. Quel bewuthered è un neoarcaismo che mi ha fatto pensare a Wuthering Heights, cioè Cime Tempestose (1847).

Non sempre sono riuscito a rendere gli arcaismi, soprattutto quelli creativi. Quel «Confusticate and bebothered these dwarves!», sempre nel primo capitolo, non ho saputo renderlo meglio di chi mi aveva preceduto. Jeronimidis Conte aveva un bellissimo «Vadano in malora tutti quanti, questi nani!». Io ho optato per un più secco e colloquiale «Maledizione a questi nani!» che mi suonava adatto allo sbotto di esasperazione di Bilbo (nelle altre due occorrenze di «confusticate» ho usato espressioni analoghe).

Altre volte invece ho usato la fantasia per rendere l’arcaismo. Nella canzone provocatoria di Bilbo per i ragni, Tolkien gli mette in bocca la parola «attercop» (letteralmente “testa di veleno”), che è un nome per i ragni in Middle English, a sua volta derivato dall’Old English, e presente in una poesia medievale che Tolkien conosceva bene, The Owl and the Nightingale, sopravvissuto in un dialetto del nord dell’Inghilterra e nello scozzese ettercap.
In questo caso ho ragionato alla maniera di Fatica. Ho cercato una parola arcaica italiana e ci ho aggiunto un suffisso dispregiativo, per rafforzare il senso dell’insulto. Ecco com’è nato «aracnaccio», con un suono cacofonico che mi sembrava ancora più adatto all’uopo. Non ero obbligato a farlo, certo, potevo seguire chi mi aveva preceduto, col suo «Sputaveleno». Ma in italiano “sputaveleno” significa “malalingua”, lo si dice di una persona che parla male degli altri. Non c’entra con il senso della canzone di Bilbo. Inoltre volevo provare a rendere l’arcaismo, appunto. E così ho azzardato.

Un arcaismo invece l’ho mancato. Ma rimedierò nella prima ristampa. Ho tradotto «butler» con «maggiordomo», come già aveva fatto Jeronidimis Conte, sapendo che il maggiordomo nelle magioni inglesi derivava il suo nome proprio dall’essere il detentore della chiave della cantina. Di per sé non è scorretto. Ma butler viene dal francese medievale bouteillier. E l’amico Riccardo Ricobello mi ha fatto notare che proprio in quel senso Tolkien probabilmente lo intendeva. Non già quindi come capo della servitù di palazzo con la chiave delle cantine, ma come domestico «bottigliere», ossia addetto allo smistamento di bottiglie e botti. Lo conferma il Treccani: «Bottigliere, s. m. – Cantiniere, chi ha in custodia le bottiglie di una cantina (in case signorili, principesche, ecc.». Nell’Italia medievale questa figura era chiamata così. In Francia e Inghilterra il nome è rimasto attaccato al capo della servitù. Credo quindi che l’elfo ubriacone raccontato da Tolkien sarebbe meglio descritto come bottigliere o cantiniere che come maggiordomo. Per la ristampa.

Una delle prime cose che si imparano traducendo – oltre al fatto che l’errore stupido è sempre dietro l’angolo – è che la coperta è quasi sempre corta. Non si può avere tutto. Per esempio il fatto che con la parola worm < wyrm l’inglese medievale indicasse sia il verme sia il drago genera un gioco di parole quando Bilbo ricorda il detto di suo padre: «Every worm has his weak spot». Lì worm era reso da Jeronimidis Conte con «drago», già saggiamente rivisto da Ciuferri in «verme». Suona altamente improbabile che Bungo Baggins pronunciasse detti a proposito di draghi. Mentre è facile che «Ogni verme ha il suo punto debole» possa riferirsi al deterrente naturale per un parassita che infesta le piante o gli animali d’allevamento. Ma Bilbo può usare lo stesso detto riferendosi a Smaug. In italiano ovviamente rendere questo doppio senso è impossibile, tocca fare una scelta, e sicuramente andava confermata quella di Ciuferri.

Eufonia e onomatopea

Ci sono parole di cui Tolkien si innamora. Alcune ricorrono spesso nel romanzo, altre in poche occasioni, ma significative. Certi suoni li inflaziona, altri li centellina come il vino buono. Anche qui due esempi.

Un aggettivo che gli piace molto è «grim», con questo suono breve, secco e arrotato. Rende l’idea, ma un’idea vasta. Infatti sembra quasi che lui si diverta a usarlo in tutte le sue varie accezioni. E la sfida per il traduttore è coglierle, invece di appiattirle. Ci sono più di venti occorrenze di «grim» e «grimly» nel romanzo. Spesso è riferito ai Nani, che hanno un’aria «truce» o «torva». Quando però si riferisce alla voce di Bard, prima, e alla sua espressione, poi – l’ordine è questo perché è un personaggio che entra in scena come voce fuori campo («a grim-voiced man») e solo in seguito acquista una presenza fisica («grim-faced» / «grim of face») – sfuma piuttosto nel significato di «severo». In questo caso ho sacrificato l’eufonia e l’omofonia alle sfumature di senso.

Un altro esempio è «ominous», un latinismo che ha il suo corrispettivo in italiano e che io, come ha fatto anche Fatica, ho mantenuto in «ominoso». Nello Hobbit compare soltanto due volte: una riferito al gestaccio che gli abitanti di Città del Lago rivolgono in direzione della Montagna dove dorme il drago; e una riferita a un corvo che volteggia da quelle parti, il tipico uccello del malaugurio, che in inglese è detto “bird of ill omen”. Ma quanto è più eufonico «ominoso»… rispetto a «del malaugurio» o «malaugurante». Per me non c’è confronto, e ho tradotto di conseguenza.

A volte sembra quasi che Tolkien voglia trasmetterci i suoni di ciò che accade, e allora, ad esempio, nella scena in cui i barili vengono fatti rotolare nel fiume sotterraneo attraverso la botola delle cantine degli Elfi, c’è una sequenza di verbi come questa: «thudding», «smacking», «jostling», «knocking», «bobbing»… che purtroppo non trovano tutti un effetto altrettanto “sonoro” in italiano. Io non sono riuscito a fare di meglio di «cadendo», «schiantandosi», «andando a sbattere», «cozzando», «sobbalzando». Tant’è, la lingua ha i suoi limiti.

Titoli

I titoli dei capitoli dello Hobbit sono frasi fatte o doppi sensi ironici.
Per esempio, nel titolo del primo capitolo, An Unexpected Party, noi tutti traduciamo “party” con “festa”, e non si può fare altrimenti, perché il collegamento è con il titolo del primo capitolo del Signore degli Anelli, A Long Expected Party. Ma se nel successivo romanzo la festa è proprio quella di compleanno di Bilbo, nello Hobbit si tratta piuttosto di una “riunione” inattesa. Gandalf convoca a casa di Bilbo una riunione segreta, non organizza proprio nessuna festa. Anche qui, come nel caso di “worm”, il doppio senso non riesce a passare nell’italiano, se non attribuendo appunto alla parola “festa” un senso ironico.

Il titolo del capitolo quarto: Over Hill and Under Hill fa certamente riferimento al fatto che la compagnia di Thorin sale su per i Monti Brumosi e poi viene trascinata sotto gli stessi, ma ho provato a cercare una resa che tenesse sia il senso materiale sia quello figurato di stare in alto e poi in basso. Così ho optato per Sali e scendi la china, visto che “to be over hill” è anche un modo di dire (avere scollinato nel senso di avere passato la mezza età, non essere più giovani).

Per il titolo del capitolo nono, Barrels Out of Bond, Jeronimidis Conte molto liberamente aveva storpiato un modo di dire italiano: La botte piena e la guardia ubriaca. Ciuferri aveva optato invece per Barili in libertà. Ma “out of bond” si dice di merci che sono uscite da un magazzino doganale e hanno passato il confine, ecco perché ho optato per Barili sdoganati, perché mi sembrava cogliere il doppio senso rispetto a quello che succede.

Lo stesso dicasi per il titolo del capitolo dodicesimo: Inside Information era stato precedentemente tradotto con Notizie dall’interno, che non è certo scorretto, ma tralascia l’effetto ironico. Una “inside information” può essere l’Informativa interna, nel senso della circolare per il personale di un’azienda o di un ufficio. Ecco spiegato il titolo che ho scelto.

Canzoni e indovinelli

Nelle canzoni e nelle filastrocche si può tirare finché si vuole, di ganci ce n’è in quantità. Per fortuna ho avuto la revisione di Beatrice Masini, perché certo da solo non ci sarei riuscito a tradurle come si deve. La linea guida che mi sono dato è quella di non modificare per quanto possibile lo schema delle rime, ma di cercare di rispettarlo anche in italiano. Forse questa è la differenza più evidente rispetto a chi mi ha preceduto nell’impresa. E anche il fatto che io ho cercato di non aggiungere parole, di non allungare i versi per renderli più tondi.

Questo è capitato anche negli indovinelli di Bilbo e Gollum. Un esempio è l’indovinello del vento, che ha una rima ABAB:

Voiceless it cries,
Wingless flutters,
Toothless bites,
Mouthless mutters.

Jeronimidis Conte aveva usato quattro rime uguali, facendo rimare tra loro i verbi (la traduzione è riproposta identica da Ciuferri):

Non ha voce e grida fa,
non ha ali e a volo va,
non ha denti e morsi dà,
non ha bocca e versi fa.

Io invece ho provato un’altra strada:

Grida senza voce,
Senz’ali il volo spicca,
Senza denti è mordace,
Borbotta senza bocca.

Un buon esempio della stessa diversità d’approccio è la canzone del ritorno del Re sotto la Montagna:

The King beneath the mountains,
The King of carven stone,
The lord of silver fountains
Shall come into his own!

His crown shall be upholden,
His harp shall be restrung,
His halls shall echo golden
To songs of yore re-sung.

The woods shall wave on mountains
And grass beneath the sun;
His wealth shall flow in fountains
And the rivers golden run.

The streams shall run in gladness,
The lakes shall shine and burn,
All sorrow fail and sadness
At the Mountain-king’s return!

Jeronimidis Conte (e Ciuferri si discostava di pochissimo, cambiando appena qualche parola) traduceva così:

Il re degli antri che stan sotto il monte
e delle rocce aride scavate,
che fu signore delle argentee fonti,
queste cose riavrà, già a lui strappate!

Sul capo il suo diadema poserà,
dell’arpa ancora sentirà il bel canto
ed in sale dorate echeggerà
di melodie passate il dolce incanto.

Sui monti le foreste ondeggeranno,
ondeggeranno al sole l’erbe lucenti,
le ricchezze a cascate scenderanno
ed i fiumi saranno ori fulgenti.

I ruscelli felici scorreranno,
i laghi brilleran nella campagna
e dolori e tristezza svaniranno
al ritorno del Re della Montagna!

Rispetto all’originale io ho provato a rimanere più asciutto, come si capisce già dalla brevità dei versi:

Il Re sotto l’ombra dei monti,
Il Re della roccia scolpita,
Signore di argentee fonti
Ritorni alla sua terra avita!

Lui innalzerà la corona,
E l’arpa sarà riaccordata,
Già l’aula preziosa risuona
Di quella canzone obliata.

I boschi a danzare sui monti,
Nel sole biondissimo i prati;
Ricchezza a fiottar dalle fonti
E fiumi a fluire dorati.

Ruscelli che scorrono gai,
Rilucerà d’or l’acqua stagna,
Spariscono dolore e guai
Se torna il Re della Montagna!

Bene. Offro ancora un ultimo gancio prima di lasciare il lavoro di demolizione ad altri.

Mappa e Nota

Non ho traslitterato in rune naniche la traduzione italiana di certe frasi che compaiono nella mappa di Thrór e nella nota introduttiva, come era stato fatto nelle edizioni precedenti. Ho lasciato la traslitterazione dell’inglese, sia nel titolo dello pseudobiblion (The Hobbit or there and Back Again) sia nella mappa. Rispetto a cinquant’anni fa oggi in Italia un po’ di inglese lo conoscono in tanti di più, e cambiare quelle scritte avrebbe significato amputare anche la nota introduttiva, che si riferisce appunto a quelle e ad altre caratteristiche del testo. In passato questa era stata la soluzione. In quella nota lo pseudotraduttore/narratore fornisce la chiave di lettura delle rune e fa riferimento a suoni della lingua inglese. Trattandosi di un oggetto che compare nel testo, e la cui riproduzione è addirittura allegata al libro, ho ritenuto che non andasse toccato, che dovesse rimanere come lo ha concepito l’autore (e di conseguenza ho dovuto fare lo stesso per la mappa delle Terre Selvagge, anch’essa allegata al volume). Tanto più che forse per la prima volta è stato riprodotto l’effetto trasparenza per leggere le rune naniche, quello che Tolkien avrebbe voluto fin dalla prima edizione del romanzo. Lasciare la mappa di Thrór in originale è stata una scelta tanto più coerente con un volume come questo, letteralmente infarcito di immagini realizzate da Tolkien medesimo, ma vuole anche essere un invito a superare la diatriba sulla resa in italiano della toponomastica e nomenclatura tolkieniana, che ha sottratto tantissimo tempo alla critica propriamente letteraria. Meglio non dimenticarsi che quei nomi hanno una versione originale, ed è quella davvero importante. E ovviamente anche questa scelta, quella di lasciare le mappe con le loro scritte originali, trattandole come fossero “oggetti di scena”, potrà essere criticata e smontata.

Buon lavoro a chi ci si metterà d’impegno.

Wu Ming 4

P.S. Chi volesse ascoltare Riccardo Ricobello, introdotto dal sottoscritto, leggere brani della traduzione, può venirci a sentire a Lucca Comics and Games, venerdì 1 novembre, dalle ore ore 12.30 alle 13.30 in Sala Ingellis.

Qui invece la lunga intervista che mi ha fatto Paolo Nardi per il suo canale YouTube:

ARTICOLI PRECEDENTI
– Vai all’articolo Lo Hobbit, confessioni di un traduttore
– Vai all’articolo Il 30 agosto 2023 Sir Gawain in nuova traduzione
– Vai all’articolo Traduzione, archiviata la querela di Alliata
– Vai all’articolo Gennaio 2019, ritradotto Il ritorno di Beorhtnoth
– Vai all’articolo L’AIST: sarà tradotta la History of Middle-earth
– Vai all’articolo Alliata contro Bompiani: ritiro la mia traduzione
– Vai all’articolo Pubblicata la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello
– Vai all’articolo Annunciata una nuova traduzione per le Lettere di Tolkien!

 

LINK ESTERNI
– Vai al sito della Bompiani editore
– Leggi l’articolo Perché (ri)leggere Lo Hobbit? di Sebastiano Tassinari
– Leggi l’articolo La nuova traduzione de Lo Hobbit:: intervista a Wu Ming 4 di Alessio Vissani

 

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12 Comments to “Lo Hobbit, confessioni
di un traduttore”

  1. Eanur ha detto:

    Non so, c’è una parte di me che ora rimpiange di non poter ammirare le reazioni dei lettori ai troll che parlano come Er Monnezza e Bombolo. Per di più avrebbero avuto il vantaggio di far passare inosservate le bretelle

    A parte questo, prendiamo i popcorn e prepariamoci al tifone.

    P.S. ottima scelta secondo me quella di non stravolgere le mappe. Quella toponomastica del resto trovo sia la diatriba più sterile e sorpassata di tutte, roba che si confà davvero solo a chi ancora ciancica di perfide albioni non realizzando che pare di sentir parlare il Minculpop. O, peggio ancora, realizzandolo.

  2. Lock ha detto:

    Vabbè, con la scusa che oggi l’italiano lo dovrebbero sapere tutti, tanto valeva non fare una nuova traduzione. Che senso ha lasciare le mappe in inglese (con anche la nomenclatura, immagino) e il testo del libro in italiano? Personalmente lo trovo inaccettabile.

    Riguardo gli errori, ma non c’è qualcuno che rilegge le bozze, o qualcuno esperto che effettua perlomeno una lettura un po’ approfondita? Vabbè, “brace e bretelle” si correggeranno nella prossima edizione, ma non è un buon biglietto di presentazione per una nuova traduzione.

    Grazie per le spiegazioni sulle ragioni dei cambiamenti, non sono certo di condividerli tutti, ma almeno è più chiaro l’approccio.

    Per finire, la canzone postata come esempio non mi convince. Si è cercato a tutti i costi di mantenere le rime (che a mio avviso hanno meno importanza della fedeltà del testo, ma è un’opinione personale), però alcune frasi sono differenti dall’originale, e questa cosa non mi piace.

    Mi riservo comunque di leggere la nuova traduzione, affiancandola con l’originale e quella classica, prima di esprimere un giudizio definitivo.

    • P.G. ha detto:

      “Mi riservo comunque di leggere la nuova traduzione, affiancandola con l’originale e quella classica, prima di esprimere un giudizio definitivo.”

      Ecco, così ci si gode un romanzo!

  3. Lock ha detto:

    Intendevo “l’inglese”, non “l’italiano”, spero si sia capito.

  4. Ciuf ha detto:

    Senza vergogna

  5. Bob ha detto:

    Una domanda chiave è anche chi decide che c’è bisogno di una nuova traduzione (a parte i casi in cui siano passati decenni e la vecchia suoni aulica … come è il caso dell’Odissea etc e, immagino, anche la traduzione inglese della Divina Commedia.
    Qui però siamo di front a traduzioni non troppo distanti tra loro (escludendo la prima che come nel caso di LotR aveva seri problemi). Si trattava al più di scelte stilistiche che in ogni caso dovrebbero essere controllate dall’editore che sui diritti di questi libri ci fa tanti bei soldoni.
    Ecco allora che un dubbio legittimo è che la nuova traduzione nasca principalmente per ripulire (ritirandole dal mercato) le precedenti copie e l’obolo dovuto al traduttore e incentivare nuove vendite con lo specchietto allodole nuova edizione.

    p.s. anche io sono rimasto un poco perplesso per il caso braces per come sia sfuggito alla correzione pre-stampa. Meglio sarebbe stato un “ripensamento” più che svarione non corretto/rilevato da nessuno

    • Wu Ming 4 ha detto:

      La risposta alla domanda chiave è: l’editore. L’editore decide cosa ritradurre. E non ci sono dubbi che l’editore è un soggetto commerciale che pubblica libri per venderli e guadagnarci “tanti bei soldoni”. L’economia capitalistica funziona precisamente così, e l’editoria non fa eccezione. In questo caso, trattandosi di un’edizione di pregio, corredata da tutti i disegni e i bozzetti di Tolkien, e soprattutto trattandosi di un classico della letteratura che vende di default da decenni, l’editore avrebbe forse perfino potuto risparmiarsi di investire in una nuova traduzione. Ma da alcuni anni Bompiani ha deciso di intraprendere la ritraduzione delle opere di Tolkien e ha colto l’occasione di questa nuova edizione uscita l’anno scorso in Uk per ritradurre anche Lo Hobbit. Anche questa è una scelta che pertiene esclusivamente all’editore stesso, detentore dei diritti di pubblicazione per l’Italia.
      Sullo strafalcione di “braces” è presto detto: come spesso accade nell’editoria a ogni livello (grande, media, piccola), e come sa chiunque ne conosca le dinamiche, l’editing viene fatto in tempi sempre troppo ristretti, giacché il tempo è denaro e più ne risparmi meglio è. Non è la prima volta che accade e dubito fortemente che sarà l’ultima. Va poi anche detto che è prassi piuttosto comune correggere gli errori – e a volte anche il tiro rispetto a certe scelte lessicali – perfezionando il testo in ristampa.

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