Giunge alle stampe The Collected Poems of J.R.R. Tolkien, in un’edizione curata da Christina Scull e Wayne G. Hammond; un’opera – certamente tra le più importanti degli ultimi anni nel panorama tolkieniano – attesa a lungo dagli studiosi e dagli appassionati. Tre corposi volumi, per un totale di 1500 pagine, presentano gran parte dell’opera poetica dello scrittore inglese con un ricco apparato di annotazioni storico-biografiche. I pregi sono evidenti; non mancano, tuttavia, alcuni aspetti che lasciano perplessi.
Premessa: Tolkien come poeta
Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli accolgono al loro interno quasi un centinaio di poesie che, cantate o recitate dai personaggi a beneficio di un’audience specifica, rappresentano un aspetto persino preponderante dell’interazione comunicativa e, in senso metanarrativo, paiono spesso riconducibili a specifiche tradizioni poetiche del Mondo Primario. Alcune, infatti, richiamano metri e stilemi dell’antica poesia anglosassone, altre ripropongono forme tradizionali del folklore inglese, altre ancora esprimono più di una complanarità con la lirica romantica, per la loro capacità di suggerire esperienze interiori o trascendentali. L’aspetto più interessante, in ogni caso, è la forte connessione che, nei romanzi, la poesia intrattiene con la prosa: «the characters do not just recite or listen to poetry, they usually set about commenting on it or interpreting it. Their interpretations do not primarily consist in elucidating the meaning; indeed, sometimes uncertainties are left as they are. What interests the characters more is the provenance of these poetic texts. The poems and songs of The Lord of the Rings have a history which is often discussed by the listeners and sometimes proves to be relevant to the plot; […] they also appear to be part of a living tradition, as some of the characters are shown as being engaged in translating and communicating ancient as well as more recent poetry» (Kullmann e Siepmann 2021: 240). Si direbbe, dunque, che la poesia costituisca un elemento fondamentale nel worldbuiling tolkieniano e contribuisca a creare quel senso di antichità e profondità storica perseguito dall’autore. Eppure, a dispetto di tanta importanza, molti lettori dello Hobbit e del Signore degli Anelli tendono ancora oggi a trascurare o persino a saltare le parti in versi per non interrompere il ritmo del racconto, perdendo così elementi integrali che illuminano di senso le trame e rimarcano gli stati d’animo dei personaggi, spesso più di quanto non faccia la prosa stessa. Tutto ciò costituisce uno strano paradosso, di cui lo scrittore inglese in persona ebbe modo di lamentarsi: «La mia “poesia” è stata poco apprezzata: i commenti, anche di alcuni ammiratori, sono più che altro sdegnosi (mi riferisco alle recensioni di tizi che si dicono letterati). Forse in gran parte perché nel clima contemporaneo, in cui la “poesia” deve riflettere solo l’agonia personale della mente o dell’anima, e le cose esteriori hanno valore solo per le loro “reazioni”, non si riconosce mai che i versi nel S.d.A. sono tutti drammatici: non esprimono la ricerca dell’anima del povero vecchio professore, ma sono adatti nello stile e nel contenuto ai personaggi della storia che li recitano o li cantano, e alla situazione in cui si trovano» (Lettere: n. 306).
Occorre sottolineare che, a differenza di quanto potrebbe evincersi dalla lettura (distratta) delle sue “opere maggiori”, l’importanza della poesia di Tolkien non dipende solo da una pretesa funzione ancillare nei confronti della prosa; ciò è peraltro dimostrato dal fatto che gli interessi poetici dello scrittore inglese hanno inizio già negli anni alla King Edward’s School di Birmingham, dove le lingue e le letterature classiche venivano studiate come preparazione a Oxford e Cambridge. Il giovane Ronald, a dire il vero, aveva già appreso i primi rudimenti di latino dalla madre ma in questo periodo ebbe modo di approfondire la poesia inglese, da Beowulf ai Racconti di Canterbury, fino alle opere di autori moderni come Tennyson, Swinburne, Hardy, Kipling e i poeti georgiani; è noto, inoltre, che egli soleva «intrattenere gli amici recitando passi del Beowulf, da Pearl e Sir Gawain and the Green Knight; raccontava episodi terrificanti tratti dalla nordica Völsungasaga, e già che c’era prendeva in giro Wagner, del quale disprezzava l’interpretazione dei miti» (Carpenter 2009: 77). A quegli anni risale anche la prima poesia scritta da Tolkien di cui si abbia notizia, Morning / Morning Song (Collected Poems, n. 1), acclusa in una lettera all’amata Edith Bratt datata 28 marzo 1910. Di un anno dopo è The Battle of the Eastern Field (n. 6), cronaca di una partita scolatica di rugby in uno stile che riprende, parodiandolo, quello di The Battle of Lake Regillus di Macaulay; si tratta del primo testo pubblicato da Tolkien, che vide la luce nel numero 26 della King Edward’s School Chronicle (1911). Fu, però, l’incontro col Kalevala ad accendere la fantasia del giovane: oltre a ispirare una riscrittura del poema stesso, The Story of Kullervo (n. 17), esso lo incoraggiò a comporre versi propri che a posteriori possono considerarsi a buon diritto l’inizio letterario del Legendarium: The Grimness of the Sea, poi sviluppatasi in The Horns of Ylmir (n. 13), e The Voyage of Éarendel the Evening Star (n. 16). Nel giro di un anno, i testi poetici dedicati alla nascente mitologia di Arda arrivarono a venticinque, tra cui You and Me and the Cottage of Lost Play (n. 28), Kôr: In a City Lost and Dead (n. 30) e The Shores of Faery (n. 31). Occorre dunque considerare due elementi di notevole rilevanza: anzitutto che il Tolkien ventitreenne «embraced poetry as a favoured mode of expression» (Scull, Hammond 2024: xvii) e inoltre che la ricerca di una cifra poetica procedette, almeno in questa fase, di concerto al primo sviluppo del Legendarium. L’opera certamente più nota di questa fase giovanile è Goblin Feet (n. 27), che comparve nel numero del 1915 di Oxford Poetry e nel successivo Book of Fairy Poetry curato da Dora Owen e illustrato da Warwick Goble (Londra, Longmans, Green & Co. 1920). Incoraggiato dalla stessa Owen, Tolkien provò persino a pubblicare un intero volume di poesie, intitolato The Trumpets of Faërie, ma la sua proposta alla casa editrice londinese Sidgwick and Jackson ricevette un garbato rifiuto. Ulteriori tentativi presso la Swann Press di Leeds e Blackwell ad Oxford non avrebbero avuto, d’altro canto, maggior fortuna (Anderson 2006: 549).
Iniziava, frattanto, la carriera accademica di Tolkien: a Leeds, egli lavorò a importanti traduzioni – Beowulf, Sir Gawain – e pubblicò varie poesie in giornali locali e riviste universitarie; insieme al collega E.V. Gordon, inoltre, egli «encouraged students to sing verses in Old, Middle, and Modern English, Gothic, Old Norse, and Latin at social gatherings, at which they also read sagas and drank beer» (Scull, Hammond 2024: xxxi), dimostrando una volta ancora la sua spiccata propensione per gli aspetti performativi e musicali della poesia. Risalgono al 1921 circa diversi poemi del “Silmarillion”, come The Lay of the Fall of Gondolin (n. 66), The Children of Húrin (n. 67), il Lay of Leithian (n. 92), The Flight of the Noldoli e un lai su Earendel (questi ultimi non sono stati inclusi nei Collected Poems ma erano stati già pubblicati in I lai del Beleriand). Di poco successivi sono The Lay of Aotrou and Itroun (n. 116), The Homecoming of Beorhtnoth Beorhthelm’s Son (n. 129), i “nuovi lai” sulla Völsungasaga (n. 131), la fondamentale Mythopoeia (n. 136) e The Fall of Arthur (n. 140), oltre a varie poesie per l’Oxford Magazine come The Adventures of Tom Bombadil ed Errantry. Anche questa seconda fase poetica non trovò un felice esito: il Lay of Leithian fu, com’è noto, respinto dalla Allen & Unwin, pur desiderosa di pubblicare altre opere del fortunato autore dello Hobbit, col risultato che Tolkien dovette attendere ancora a lungo perché un suo libro di poesie fosse finalmente pubblicato. Si tratta di The Adventures of Tom Bombadil and Other Verses from the Red Book, che vide la luce solo nel 1962 e solo grazie all’enorme successo del Signore degli Anelli, del quale era stato presentato al pubblico come “appendice” poetica.
Insomma, la vicenda compositiva dell’opera di Tolkien appare paradossale non solo sul versante narrativo del Legendarium, ma anche su quello specificamente poetico: anni di scritture e riscritture mai coronati da una completa pubblicazione che, vivente l’autore, ne avrebbe espresso appieno la volontà ultima. Del resto, a dispetto dell’impegno profuso dallo scrittore inglese nella sua produzione poetica, il responso della critica è stato tutt’altro che entusiastico. Ne è un esempio eclatante Brian Rosebury, il quale ha lamentato lo stile eccessivamente derivativo della produzione giovanile dello scrittore (cfr. Rosebury 1992: 82) e l’ha squalificata come l’opera di un talento genuino ma limitato, incapace di conciliarsi con il gusto del ventesimo secolo (cfr. Ivi: 84). Allo stesso modo, lo studioso ha espresso un parere tranchant su The Adventures of Tom Bombadil (con l’eccezione di The Sea-Bell) e su Mythopoeia, a suo parere niente più che un «semi-pastiche» (cfr. Ivi: 110). Certo: da allora gli studiosi hanno espresso pareri più equilibrati, ma hanno anche manifestato la tendenza a lavorare su campioni ristretti e consolidati del corpus poetico tolkieniano – «evidently a zone of comfort», dicono Scull e Hammond, «even after other verse was published by Christopher Tolkien in The History of Middle-earth» (2024: lv) –. Proprio qui si gioca la battaglia dei due editori dei Collected Poems: offrire un’ampia visuale della poesia tolkieniana che possa essere utile tanto ai lettori e agli appassionati quanto agli studiosi.
Cosa c’è nei Collected Poems (e cosa manca)
La storia dei Collected Poems è raccontata nella lunga introduzione al testo e ha inizio molto tempo fa. Già nell’aprile del 2016, infatti, Christina Scull e Wayne C. Hammond ricevettero un invito dalla HarperCollins per discutere sulla realizzabilità di uno o più volumi che raccogliessero le poesie di Tolkien. Gli interessi della casa editrice convergevano felicemente con quelli della Tolkien Estate, ansiosa (ça va sans dire) di pubblicare nuove opere dello scrittore inglese, e con quelli di Christopher Tolkien, il quale ambiva a rivelare una volta per tutte il talento poetico del padre di fronte al grande pubblico. La scelta era ricaduta su Scull e Hammond in quanto biografi e bibliografi di Tolkien (cfr. Hammond e Anderson 1993, Scull e Hammond 1995 e 2017) nonché curatori delle sue opere (cfr. Tolkien 1998, 2004 e 2014a) e autori di saggi (Scull e Hammond 2005). I due, inoltre, si erano già confrontati con la poesia tolkieniana curando The Adventures of Tom Bombadil (Tolkien 2014b) in un’edizione ampliata con prime versioni dei testi e note storico-biografiche.
Le fonti più importanti a disposizione degli editori consistevano in due raccolte in possesso della Bodleian Library di Oxford, i Blue Poetry Books I and II, contenenti i versi giovanili di Tolkien (dagli anni Dieci agli anni Trenta), e i Verse Files I and II, comprendenti riscritture e testi della maturità (dagli anni Trenta agli anni Sessanta). La Bodleian Library, inoltre, fornì agli editori scansioni ad alta risoluzione di altre poesie provenienti dai suoi archivi tolkieniani, mentre altri materiali giungevano dall’Archival Collections and Institutional Repository della Marquette University di Milwaukee e dall’E.V. and Ida Gordon Archive dell’Università di Leeds. Ulteriori ricerche avrebbero dovuto concentrarsi sui materiali in possesso di Christopher Tolkien, ma la morte di quest’ultimo rese impossibile ogni iniziativa in tal senso.
Ma veniamo, finalmente, ai Collected Poems. L’opera che è giunta alle stampe nel settembre 2024 (mi riferisco, nello specifico, all’edizione inglese) si presenta in tre corposi volumi stampati dall’italiana Rotolito con carta FSC Mix e una robusta rilegatura cartonata (ma non rivestita in tela). Ciascuno di essi presenta piatti color crema, impreziositi dai disegni di Tolkien, e dorsi di un blu intenso; negli uni e negli altri sono presenti impressioni dorate, mentre all’interno un segnalibro in seta blu conferisce un tocco di classe all’insieme. I volumi non hanno sovraccoperta ma sono raccolti in un cofanetto robusto e ben realizzato che riprende il design delle copertine. Ci troviamo, insomma, di fronte a un bell’oggetto, certamente pensato anche per far felici i collezionisti e i bibliofili.
Quanto ai contenuti, i tre volumi coprono rispettivamente gli anni 1910-1919, 1919-1931 e 1931-1967 e, come affermano Scull e Hammond, includono «the earliest and latest versions of each poem, if extant and legible, as well as any significant intermediate texts, either in full or in summary, as seemed best for each individual work» (Scull e Hammond 2024: lxiii). E non c’è che dire, il materiale è abbondante: parliamo di 195 testi (senza contare le prime versioni e le intermedie), tra cui si contano anzitutto ben 77 poesie inedite, come Morning / Morning Song (n. 1), The Dale-lands (n. 2), A Fragment of an Epic: Before Jerusalem Richard Makes an End of Speech (n. 7), The New Lemminkainen (n. 8) e Lemminkainen Goeth to the Ford of Oxen (n. 9) nonché poesie della Grande Guerra come The Thatch of Poppies (n. 49), I Stood upon an Empty Shore (n. 57), e Build Me a Grave beside the Sea / Brothers-in-Arms (n. 58). Ad esse si aggiungono non poche poesie finora pubblicate solo in parte, come Wood-sunshine (n. 4), fuori catalogo da tempo, come quelle del ciclo Songs for the Philologists, edite in versioni non originali, come The Complaint of Mîm the Dwarf (n. 185) o già diffuse ma adesso corredate da versioni alternative, come The Battle of the Eastern Field (n. 6); né mancano versioni inedite dei poemi del Legendarium, ad esempio The Grey Bridge of Tavrobel (n. 56) o l’incompiuto The Children of Húrin (n. 130) in metro allitterativo. Inoltre, le Appendici contengono limerick, clerihew e adagi in latino (I e II) nonché la gustosa Bealuwérig, una traduzione in Antico Inglese della celebre Jabberwocky di Lewis Carroll (V). Particolarmente preziose anche le Appendici III e IV, contenenti rispettivamente degli elenchi delle poesie tolkieniane stesi dall’autore stesso ed una “lista di parole” tratte da opere antiche e moderne (con una sorprendente presenza di Shakespeare!) che egli approntò da studente universitario in vista di futuri utilizzi. Tuttavia, il metodo di lavoro di Scull e Hammond – di cui parlerò tra poco – impone alcune economie di spazi: così, i Collected Poems accolgono solo una ristrettissima selezione di testi dallo Hobbit e dal Signore degli Anelli e pochi estratti dei poemi del ‘Silmarillion’ già disponibili nella History of Middle-earth o in altre opere. Così, ad esempio, gli editori ammettono che «The Children of Húrin cannot be printed here in its entirety» (Scull e Hammond 2024: 487) in quanto già pubblicato altrove: ma ciò, a ben vedere, varrebbe anche per la maggior parte delle poesie incluse nei Collected Poems; dunque, non ci troviamo di fronte a una scelta editoriale oggettiva e perseguita in maniera omogenea all’interno dell’opera. Altre omissioni riguardano testi che «for one reason or another are problematic» (Ivi: lxi) e un numero imprecisato di poesie giovanili perdute o ancora sconosciute, presumibilmente contenute nelle carte in possesso di Christopher Tolkien al momento della sua morte. Ciò considerato, gli editori ribadiscono che «The Collected Poems of J.R.R. Tolkien is not a Complete Poems, though it represents most of the works of poetry Tolkien is known to have written» (Scull, Hammond 2024: lxi).
Veniamo, dunque, alla filosofia editoriale e al metodo di lavoro di Scull e Hammond: i Collected Poems raccolgono le poesie in voci identificate da un numero, un titolo (o, quando non ve ne sia uno, dal primo verso) e un intervallo cronologico che individua le date di composizione, revisione o pubblicazione del testo. All’interno di ogni voce, inoltre, è fornita ogni versione disponibile del testo, identificata da una lettera. Così, ad esempio, la voce n. 1 è Morning / Morning Song (1910-15) ed accoglie le versioni A, B, C e D della poesia, ciascuna con un commento degli editori che riguarda per lo più il Sitz im Leben del testo e le principali variazioni tra una versione e l’altra; quasi inesistente, invece, è l’analisi metrica (ridotta, per lo più, all’individuazione dello schema di rime) e contenutistica. Ne consegue che ogni voce costituisca essenzialmente una sequenza cronologica dalla prima versione di una poesia alla più recente: un approccio che, dunque, ripropone grossomodo quello adottato da Christopher Tolkien nella Storia della Terra di Mezzo. Gli stessi editori ammettono che non si tratta di un metodo perfetto, dal momento che poche poesie, se non pochissime, possono essere datate con assoluta certezza; tuttavia, giustificano la propria scelta sostenendo che l’ordine cronologico «best serves to illustrate Tolkien’s development as a poet, rather than, say, arranging his works by subject or theme» (Ivi: lxii). I Collected Poems assumono perciò un taglio più storico-biografico che letterario, rispetto al quale Scull e Hammond prevengono le critiche ammettendo candidamente: «We have not analysed every poem in this collection according to its metre, lest our book become overly technical. No doubt there will be readers eager to do that work for themselves. It has already been done for selected poems» (Ivi: xlviii). Così, si limitano a restituire lo stato dell’arte citando studi immancabili ma parziali come quelli di Deyo (1986), Russom (2000), Eilmann e Turner (2013), Lee e Solopova (2015), Cawsey (2017) etc. ma di fatto non offrono interpretazioni dei testi se non nel quadro della parabola biografica di Tolkien.
Pregi e difetti di quest’edizione
Alcuni libri, forse la maggior parte, devono “lottare” per conquistarsi un pubblico ma di certo i Collected Poems non hanno bisogno di affrontare una simile difficoltà: il nome di Tolkien è sufficiente a garantire a un’opera certamente non economica un sicuro riscontro di vendite presso gli studiosi, i lettori vecchi e nuovi, gli appassionati e i collezionisti bibliofili. Non solo: rende accettabile l’evidente, e per certi versi necessaria, provvisorietà del testo proposto da Scull e Hammond. Non è difficile prevedere, considerando anche l’andamento recente delle pubblicazioni tolkieniane, che nei prossimi anni saranno pubblicate versioni aggiornate ed ampliate dei Collected Poems o che ne saranno estratte singole sezioni in volumi tematici (un po’ come dal Signore degli Anelli, dal Silmarillion, dai Racconti incompiuti e dalla Storia della Terra di Mezzo è stato ricavato, ad esempio, The Fall of Númenor). A pensar male si fa peccato, diceva qualcuno, ma…
Eppure, i Collected Poems non costituiscono solo un’abile mossa commerciale. Fino ad oggi, l’accesso alla poesia di Tolkien è stato relativamente limitato e il lavoro di Scull e Hammond offre certamente uno strumento essenziale per averne una maggior comprensione. Sotto questo profilo, i due studiosi hanno il chiarissimo merito di rendere disponibili a uno sguardo d’insieme testi inediti, pubblicati solo in parte o fuori catalogo; l’approccio cronologico permette, inoltre, di entrare nel “laboratorio” di Tolkien e di appurare come le sue poesie siano cambiate nel tempo. Il lettore ne trae così l’idea – interessante anche in chiave performativa – che il “processo” sia in fin dei conti più importante del “prodotto”, a dispetto della rassicurante evidenza di quest’ultimo. Se da questo punto di vista la filosofia editoriale di Scull e Hammond appare stimolante – e lo è senz’altro – i risultati non sembrano tuttavia pienamente convincenti. Il principale limite dei Collected Poems, infatti, risiede nel fatto che essi non costituiscono né una normale raccolta di poesie, comprendente solo i testi finiti in ordine di pubblicazione, né un’edizione critica in senso stretto, volta a ristabilire per via congetturale la forma originale o ottimale delle opere e, con essa, la volontà ultima dell’autore. Ne consegue un’identità stranamente ibridata che si traduce in una difficoltà a comprendere con esattezza a quale pubblico sia destinata un’opera così imponente. In aggiunta, occorre constatare come i Collected Poems risentano negativamente di una notevole ripetitività, assommando versioni su versioni sulla sola base della disponibilità di testimoni da chiamare in causa. Considerando quante delle 1500 pagine dei tre volumi sono dedicate alla riproposizione di versioni anche solo leggermente diverse della medesima poesia, appare decisamente strano che le opere più lunghe (come le traduzioni di Sir Gawain, Pearl, Beowulf e i grandi poemi del Legendarium) finiscano per non trovarvi posto se non patendo un’indebita mutilazione. Per il lettore interessato solo al piacere della poesia, la presenza di più versioni e il commento incorniciato rendono la lettura decisamente ardua; per lo studioso, la frammentarietà dei testi più importanti rende i Collected Poems gravemente lacunosi.
Eppure, con una diversa filosofia editoriale – e senza riempire così tanto spazio con infinite varianti di poesie interessanti ma francamente minori – si sarebbero potute includere tutte le opere per intero. In generale, sarebbe stato auspicabile che Scull e Hammond operassero una scelta editoriale “forte”: o favorire il piacere della lettura approntando dei Complete Poems che presentassero il testo “pulito” e leggermente annotato di tutte le poesie note di Tolkien in ordine cronologico, oppure prediligere le esigenze dello studio scientifico e fornire un’edizione critica degna di questo nome, con tanto di presentazione dei testimoni, analisi degli aspetti tecnici (linguistici, metrici, retorici etc.) dei testi e via dicendo. Certo: considerando che Tolkien revisionò molto pesantemente molte delle sue poesie, spesso nel corso di decenni, sarebbero state necessarie delle decisioni editoriali abbastanza arbitrarie per scegliere solo una versione delle poesie inedite. Perciò, credo che la seconda opzione sarebbe risultata vincente: ad esempio, si sarebbero potuti presentare i testi nella loro versione definitiva (o, in assenza di quest’ultima, in una ritenuta dagli editori artisticamente compiuta), presentando le varianti – aggiunte, sostituzioni, permutazioni e soppressioni – in un apposito apparato a pie’ di pagina o a fondo testo (un po’ come avviene, ad esempio, nei Meridiani Mondadori, che non sacrificano la leggibilità all’attrezzatura critica nè viceversa). Il rischio, adombrato da Scull e Hammond, di ottenere un volume troppo tecnico sarebbe stato minimo: il lettore interessato esclusivamente ai testi li avrebbe letti nella versione fissata dagli editori, lo studioso avrebbe potuto spingersi oltre consultando l’apparato critico.
In definitiva, i Collected Poems non sono un’edizione perfetta – posto che ciò sia possibile – della poesia di Tolkien. Nonostante ciò, costituiscono un’impresa editoriale necessaria che, al netto dei molti limiti, potrà favorire una generale (e auspicabile) riconsiderazione del talento poetico di Tolkien e costituire nel tempo il punto di partenza di ricerche e studi. Anzi, a dire il vero, qualcosa già si muove: infatti, il Digital Tolkien Project, un progetto accademico di digital humanities, ha da poco lanciato una sezione sulla poesia tolkieniana che, mettendo a frutto i dati raccolti nei Collected Poems, permetterà in futuro di avere informazioni sulla metrica di ciascuna poesia e di catalogare le poesie per tema.
Bibliografia
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LINK ESTERNI:
– Vai al blog di Wayne Hammod e Christina Scull : Too Many Books and Never Enough
– Vai al sito ufficiale di Harper Collins: The Collected Poems of J. R. R. Tolkien
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Ottima recensione.
P.s. come è scritto The Complaint of Mîm the Dwarf in lingua originale?