Per gentile concessione dell’autrice pubblichiamo la traduzione italiana dell’articolo comparso sulla rivista online LitHub il 24 giugno 2024 sulla tarda aggiunta dei personaggi più iconici di Tolkien (link all’articolo originale in calce). La professoressa statunitense, fra i maggiori studiosi di Tolkien a livello mondiale insieme a Tom Shippey, ha curato Sulle Fiabe e Il fabbro di Wootton Major, ha diretto per ventidue anni la rivista accademica Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review, ha vinto ben due Mythopoeic Award per i suoi studi e ha dato alle stampe una raccolta di suoi saggi (Green Suns and Faerie) e il suo secondo romanzo, The Inn at Corbies’ Caww.
“La potenza letteraria degli Hobbit: come J.R.R. Tolkien ha dato forma al Fantasy moderno”
Quando lessi per la prima volta Il Signore degli Anelli nel 1957 ebbi l’occasione, oggi impossibile, di sperimentare la lettura di un libro che non avevo mai sentito nominare, scritto da un autore sconosciuto. Fu un’esperienza indimenticabile e irripetibile, e non ho mai smarrito la sensazione di assoluta meraviglia prodotta da quella scoperta, paragonata da C.S. Lewis a un fulmine a ciel sereno. Invidio ancora la me stessa del passato, in procinto di leggere Tolkien per la prima volta. Potessi rivivere da capo un evento della mia vita, sarebbe quello.
Non potendo farlo, ho optato per la seconda scelta migliore: l’ho letto ai miei figli. In seguito, fresca di rientro da assistente in un corso di specializzazione post-laurea, l’ho letto ai miei studenti e ho trovato in loro un pubblico pronto, in attesa di quel che Tolkien aveva da offrire. In faccia allo scetticismo dell’Accademia ho scritto la mia tesi di Dottorato su Tolkien, e sono stata abbastanza fortunata da insegnare, tenere conferenze e scrivere di Tolkien per gli ultimi cinquant’anni. Lo faccio ancora.
L’opinione comune è che J.R.R. Tolkien abbia trasformato da solo il genere del fantasy moderno. Questo è del tutto errato. Tolkien non ha trasformato il fantasy moderno; lo ha inventato.
Si può affermare con sicurezza che nessun genere formalmente riconosciuto come tale era popolare prima dei suoi scritti. Quel che passava per fantasy prima del 1954 era opera di autori di nicchia quali Lord Dunsany, E.R. Eddison, William Morris e Mervyn Peake [1]. I loro scritti fantastici – quelli di Dunsany erano bizzarri racconti brevi (a volte molto brevi) – erano opere di natura culturalmente derivativa (quelle di Dunsany di radici irlandesi, quelle di Morris norrene) o dal peculiare stampo personale (la concezione di Eddison secondo cui tutti i suoi personaggi principali erano avatar l’uno dell’altro e il suo stile letterario alla Re Giacomo I, il grottesco mondo-castello rinchiuso in se stesso di Peake). La comparsa del Signore degli Anelli fu per la cultura popolare un evento sismico, che non diede solo origine a generazioni di imitatori di second’ordine (sebbene abbia fatto anche quello), ma creò un pubblico mai esistito prima. Il marketing, da allora, non ha conosciuto pause né si è fatto troppi scrupoli.
Di recente, da uno scaffale del reparto fantasy della mia libreria di quartiere, ho preso un libro sulla cui copertina compariva “Tolkien”. Nulla nel libro era di suo pugno. Si trattava di una raccolta di mappe disegnate da mani altrui sulla base di descrizioni del suo mondo fornite da Tolkien.
Se da un lato il libro che Tolkien presentò al pubblico dei lettori nel 1956 [2] attingeva senza esitazioni dal grande tesoro della mitologia nordeuropea, dall’altro era qualcosa di più grande della somma delle sue parti.
Ai lettori fu presentato un mondo che avevano sempre desiderato ma non avevano mai sognato di poter avere; un mondo chiamato Terra di Mezzo (in antico inglese Middangeard, in antico islandese Myðgard) nel quale il fantastico incontrava il mondano, dove elfi e maghi e alberi parlanti e il terrificante perché non ben definito Oscuro Signore – in breve, il fantasy al massimo della sua espressione – condividevano lo spazio con pub e uffici postali, birra e pane e formaggio e funghi.
Questa vasta narrazione, variamente chiamata romanzo, trilogia o saga (non era niente di tutto questo) era un unicum, un’opera senza precedenti che istituì un nuovo genere letterario e generò come funghi un esercito di imitatori. Essa diede origine a una quantità di sottocategorie quali l’urban fantasy, ed è di frequente legata a doppio filo alla fantascienza, come nelle opere di Ursula Le Guin. Pochi fra gli epigoni di Tolkien in settant’anni e passa hanno colto la forma di quel che Tolkien chiamava Mondo Secondario, mentre i più (Le Guin è un’eccezione) ne hanno mancato l’essenza.
Tolkien non si limitò a scrivere opere fantasy, ma scrisse su di esso. Il suo seminale saggio Sulle Fiabe è una delle grandi discussioni teoretiche sulla tecnica e il contenuto del fantasy, all’altezza di Spenser e Coleridge [3].
Per lui il fantasy non era solo un genere letterario, né solo un tipo particolare di narrativa: era un Mondo Secondario con leggi e convenzioni sue proprie, e imponeva la Credenza Secondaria. Era un mondo in cui potevi entrare, un mondo che, se ne avevi l’immaginazione, il desiderio e la capacità, potevi anche creare.
Questo mondo egli lo chiamava Faërie, e nel suo vocabolario non c’è nome o verbo (poiché esso è entrambi) che sia più importante. Faërie (egli lo scriveva anche fayery, come cookery o witchery) vuol dire “incantesimo”, il processo o la pratica dell’incantare, e lo stato alterato dell’essere incantato, sottoposto al sortilegio delle parole.
Non era magia, che Tolkien rifiutava in quanto artificio, manipolazione del mondo reale; era quel che egli chiamava “sub-creazione”, l’imitazione da parte dei mortali dell’opera di Dio, il Creatore originale, nell’ambito della quale, come inequivocabilmente affermato: «Per diritto creiam, che ci ha creato» [4].
Qualificare la capacità di creare come “legge” la fa suonare una cosa ineludibile, come la gravità o la regola del tre; essa tuttavia non è tale, né Tolkien pensava che fosse una cosa facile. Per lui essa richiedeva quel che chiamava “perizia elfica”, e l’“intima consistenza della realtà”. In altre parole, non puoi solo dire “C’era una volta” e chiuderla lì; il tuo mondo fantasy deve mantenersi fedele alle proprie regole.
Se dai al tuo Mondo Secondario un sole verde, tutti i suoi colori saranno corrispondentemente differenti da quelli del nostro mondo. Se i tuoi Hobbit sono alti tre piedi, non vivranno in dimore elevate: le loro case troveranno posto in buche nel terreno e avranno soffitti bassi.
Molto del successo del mondo di Tolkien è dovuto alla purezza del suo intento originale, che non era scrivere fantasy ma creare una cosiddetta mitologia per l’Inghilterra, un sostituto narrativo di un presunto mito inglese perduto, scalzato dal Cristianesimo.
Egli chiamò il proprio mito Il Silmarillion, dai Silmaril, artefatti ad esso centrali, tre gioielli il cui possesso fu la causa prima della guerra che nel mito è consumatrice di tutto. Il suo mondo era chiamato Arda, i suoi dèi Valar, i suoi abitanti annoveravano Elfi e in ultimo Uomini (umani) e, piuttosto malvolentieri, Nani. La storia è una storia di guerra, ed è la prima e più persuasiva prova che Tolkien può legittimamente essere definito uno scrittore di guerra tanto quanto uno scrittore di fantasy.
Gli Hobbit non erano parte del piano originario di Tolkien. Vi entrarono piuttosto tardi e da una porta laterale, da inaspettati personaggi centrali di una storia per bambini, Lo Hobbit, che Tolkien inventò per i propri figli ma che trovò un pubblico immediato e duraturo a livello mondiale, e della quale Il Signore degli Anelli fu il seguito commissionato, desiderato, atteso e dal successo triplicato.
L’immaginario popolare riguardante la persona di Tolkien (un genere di cui egli stesso fu padre e promotore) vuole che in un momento di pausa egli abbia scarabocchiato «In a hole in the ground there lived a hobbit» sull’ultima pagina bianca di un compito d’esame che stava valutando, e abbia quindi inventato una storia che si accompagnasse alla frase. Questo non è del tutto vero. Che la storia sia genuina o no, infatti, la parola hobbit era in sé preesistente; pur se l’oracolare Oxford English Dictionary continua ad attribuirla a Tolkien, essa compare in una raccolta del XIX secolo di scritti sul folklore chiamata The Denham Tracts.
Furono l’ordinarietà e la comune umanità degli Hobbit a ridimensionare l’alquanto elevato mondo elfico del Silmarillion e a renderlo accessibile. Furono anche, e quasi involontariamente, gli Hobbit a dargli faërie. Nella loro commistione di piccolo ma non elfico (quel che gli inglesi chiamano twee [5]) e di pub, fuochi d’artificio e treni espressi c’era qualcosa di paradossalmente incantato. Non era magia e non avrebbe dovuto funzionare. Ma lo fece. Il mondo può esserne grato.
Traduzione di Giampaolo Canzonieri
Note del Traduttore
[1] Autori rispettivamente, tra le altre opere, de La Figlia del Re degli Elfi, Il Serpente Ouroboros, La Fonte ai Confini del Mondo e la trilogia di Gormenghast.
[2] Anno di pubblicazione del Ritorno del Re, e quindi di disponibilità dell’opera completa.
[3] Riguardo a Coleridge si veda il saggio (in inglese) pubblicato dal socio AIST Paolo Pizzimento sulla rivista Between: “Suspension of disbelief” vs. “Secondary Belief”: fictional worlds in Coleridge and Tolkien
[4] “We make still by the law in which we’re made”, “Mitopoeia” v. 70, traduzione nostra.
[5] Verlyn Flieger usa qui elfin e non elvish, a significare che non sta facendo riferimento agli Elfi di Tolkien ma alle minuscole (e twee, ossia “leziose”) creature alate della tradizione inglese più recente, che Tolkien affermava di detestare.
Articolo originale: The Literary Power of Hobbits: How JRR Tolkien Shaped Modern fantasy
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