Parafrasando Frank Capra, la vita non è meravigliosa. Se Harry Potter aveva tentato di convincerci del contrario, è arrivata una fiaba «nera» che ci accompagnerà negli abissi della psiche umana. Oggi sbarca in 700 cinema italiani Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, ispirato al celeberrimo romanzo di J.R.R. Tolkien. Non fatevi imbrogliare da chi vi dice che il romanzo è un’evasione nella fantasia. Niente di più falso. L’epopea di Tolkien (& Jackson) parla in realtà di cose molto terrene, del tipo: come la brama di potere distrugge l’uomo, come l’uomo sta distruggendo il pianeta sul quale gli è toccato in sorte di vivere.
È sorprendente il modo in cui molti «ideologi» continuano a fraintendere il romanzo di Tolkien: chi considerandolo una pericolosa fuga nell’irrazionale, chi rivendicandolo come padre della New Age o del neofascismo (che invece farebbe bene a specchiarsi nel delirio di potere di Sauron o di Saruman: tiranni che potranno anche assomigliare a Stalin, ma che hanno anche curiose assonanze con Hitler – il primo – e con la sua caricatura Mussolini – il secondo). La verità è che Tolkien, nel suo comodo studio di Oxford dove visse felice e contento come Bilbo Baggins a Gran Burrone, si limitava a descrivere un’Inghilterra arcadica che esiste solo nelle leggende (in questo, certo, era un conservatore) e a denunciare le brutture di un mondo che persegue la distruzione degli uomini (attraverso le guerre) e della natura. Come dargli torto, in assoluto? Detto questo, in ultima analisi la sua saga è un radicale rifiuto del potere.
Cos’è il male? Te lo dicono gli Hobbit
Ma del film in quanto tale abbiamo detto poco o nulla. È magnifico, girato in modo ubriacante e sontuoso, con qualche difetto di scrittura dovuto all’impossibilità di sintetizzare 500 pagine (tutte ugualmente care ai fan, tutte ugualmente imprescindibili) in 3 ore di proiezione. Richard Taylor, il presidente della Weta (la società fondata da lui e da Jackson, e responsabile degli effetti speciali), era ieri presente al Future Film Festival di Bologna e ci ha confessato che il 97% delle inquadrature è stato manipolato elettronicamente. Praticamente solo alcuni paesaggi (quelli senza personaggi) e qualche primo piano sono rimasti immuni. Il miglior complimento che si può fare a un effetto speciale è definirlo invisibile: dopo il travolgente prologo, e il primo incontro fra Gandalf e Bilbo, «entrerete» nel film e non farete più caso ai miracoli del computer. La prima ora ha toni da commedia, poi diventa quasi un western (l’inseguimento dei cavalieri neri è da antologia) e acquista toni horror nella sequenza delle miniere di Moria. Una grande epopea che Jackson ha impaginato con maestria. «L’unica cosa che il computer non può sostituire – ci ha detto Taylor – sono le storie emozionanti e i bravi attori». È giusto, in chiusura, spendere qualche parola su di loro. Ian McKellen ha disegnato un Gandalf definitivo, imprescindibile: i maghi (qui stregoni, pardon) al cinema non possono che essere così. Ian Holm è un Bilbo tenero e inquietante, Sean Bean è un Boromir problematico e convincente, Cate Blanchett è meravigliosa come sempre nei panni della regina elfica Galadriel. Abbiamo citato i migliori in campo, ma anche
Elijah Wood (Frodo) merita un applauso; e i suoi amici hobbit (Billy Boyd come Pipino, Sean Astin come Sam, Dominic Monaghan come Merry) avranno più sviluppo nel secondo e nel terzo film.
Alberto Crespi – 18 gennaio 2002
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