Se andrete a vedere Le Due Torri, numero due della trilogia del Signore degli Anelli, fate caso a una sequenza che arriva dopo circa un’ora di film (sulle tre totali). È la scena in cui il futuro re Aragorn, inseguendo assieme all’elfo Legolas e al nano Gimli gli orchi che hanno rapito Merry e Pipino alla fine del primo film, giunge sul luogo dove i due hobbit sono riusciti a fuggire. In esterno giorno, Aragorn esamina il terreno della battaglia che ha visto gli orchi soccombere ai cavalieri di Rohan; e da quel provetto cacciatore di uomini che è, individua le microscopiche tracce della fuga degli Hobbit; ad ogni «segno» che Aragorn legge, il montaggio stacca sulle azioni – in esterno notte – compiute da Merry e Pipino qualche ora prima: assistiamo così al fatto (la fuga) e alla sua decodificazione. È una sequenza girata e montata in modo magistrale, e basterebbe a dimostrare che Peter Jackson è un regista coi fiocchi. È un argomento tutt’altro che secondario, quando si parla di un kolossal uno e trino, costato centinaia di milioni di dollari, che si sta trasformando in un fenomeno senza precedenti di merchandising e di controllo del territorio (da ieri è in 860 sale italiane, una cifra impressionante). Ormai la saga di Peter Jackson regge il paragone non solo con l’occasionale concorrente Harry Potter, ma anche con Star Wars. Ebbene, proprio in simili casi è importante ribadire che dietro le cifre c’è un uomo: se Guerre Stellari non esisterebbe senza George Lucas, mentre registi e produttori di Harry Potter appaiono abbastanza intercambiabili (lì, a far da collante ci sono i libri della Rowling), Il Signore degli Anelli nasce tutto dalla caparbietà e dal talento di Peter Jackson, regista neozelandese che compirà 42 anni il prossimo 31 ottobre e che in pochi, solo 3-4 anni fa, credevano capace di tanto. Jackson sta vincendo una doppia scommessa: non solo ha ampiamente riportato a casa i soldi spesi anche solo limitandosi agli incassi Usa (il numero 1 ha totalizzato 313 milioni di dollari e il numero 2 ne ha già incassati 261 dopo nemmeno un mese dall’arrivo nelle sale), ma è riuscito a realizzare un kolossal con cuore e cervello. Sarà molto interessante scoprire cosa abbia intenzione di fare dopo il 2004, quando il terzo film avrà completato la trilogia. Intanto, i fan possono gioire alla notizia che il Dvd della Compagnia dell’Anello è stato eletto Dvd dell’anno per il 2002: l’edizione speciale è una manna, con 4 dischi e ore ed ore di contenuti speciali, un godibilissimo ripasso per avvicinarsi a Le Due Torri.
Una sfida neozelandese vinta due volte
Le Due Torri, ribadiamolo per coloro che non hanno mai letto Tolkien, è il titolo del secondo romanzo che compone la saga, dopo La Compagnia dell’Anello e Il ritorno del re. Che poi il film parli di guerra, e di un’alleanza multietnica (elfi, uomini, nani e naturalmente hobbit) per combattere gli eserciti di orchi scatenati dal signore del Male, Sauron, e dallo stregone «deviato» Saruman, è un fatto, aderente alla lettera della saga immaginata da Tolkien. Certo, uno dei momenti più emozionanti del nuovo film è quello in cui un esercito di elfi, vestiti un po’ da samurai e irreggimentati come soldati, arriva al Fosso di Helm per dare man forte agli uomini di Rohan, assediati dagli orchi di Saruman. È un momento in cui il concetto di alleanza contro il Male viene spiattellato sullo schermo in tutta la sua forza. È indiscutibile che nelle Due torri si parli molto di guerra, e del modo – morale e militare – di condurla. Ma, sapete: Tolkien scriveva durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, ed era stato soldato nelle trincee della Prima. Ne sapeva qualcosa. Si dovrebbe tentare di capire che, mentre Saruman e Sauron scatenano il conflitto per pura ambizione di potere, l’alleanza si difende in modo quasi riluttante, ponendosi di continuo il dilemma morale «pro» o «contro» l’intervento.
Il film ha, di fatto, due cuori, uno riuscito l’altro meno. Tutta la parte sul reame di Rohan, cavalieri antiqui dall’aria vagamente anglosassone, ricorda tragicamente le guerre di oggi: è la storia di un piccolo popolo valoroso improvvisamente attaccato da nemici soverchianti. Le immagini dei villaggi bruciati e dei profughi in fuga non ci sono in Tolkien: ce le ha messe Peter Jackson, un regista che evidentemente legge i giornali, guarda la televisione e ha un’idea di cosa succede nel mondo. In questa parte emergono in modo forte i personaggi di Aragorn, che arriva assieme al nano Gimli e all’elfo Legolas a dar manforte a Rohan, e di Theoden, il vecchio re prima rimbambito e poi rinsavito da Gandalf, ma sempre ondivago nel suo valore. È la parte migliore del film, assieme al finale, la ripartenza di Frodo e Sam verso Mordor dopo l’incontro con Faramir, soldato di Gondor e fratello di quel Boromir morto alla fine del primo capitolo. Anche lì, fra le rovine di Osgiliath che sembrano una Roma bombardata dalla guerra (e se Jackson avesse visto Roma città aperta? L’ha visto, l’ha visto…), il film allude a tragedie antiche e recenti, e acquista un senso alto, non pacifista in modo retorico o peloso: Jackson analizza l’aggressività umana, la mostra in azione. Lo fa, certo, in un mondo fantastico, non in un contesto reale come le trincee di Orizzonti di gloria (simili, certo, a quelle in cui combatté Tolkien). Ma riesce a costruire una fiaba tutt’altro che consolatoria, continuamente percorsa dal tema dell’ineluttabilità della morte (un terzo cuore del film, forse il più intimo e disperato, è la scelta di Arwen, regina elfica che deve rinunciare all’immortalità se vuole seguire il proprio cuore, che batte per il mortale Aragorn).
L’altro cuore del film è la foresta di Fangorn. Qui i due hobbit Merry e Pipino incontrano il «pastore di alberi» Treebeard (Barbalbero nella traduzione italiana), un essere silvano, un gigantesco albero semovente che riflette a lungo prima di aiutare gli uomini e gli altri popoli nella guerra. Come ci ha insegnato Terry Malick nella Sottile linea rossa, alla natura non interessano le guerre degli umani. Ma nel mondo di Tolkien la natura si schiera, perché alcuni umani (Saruman) le hanno fatto del male, l’hanno stuprata, hanno piegato le sue risorse alla distruzione e alla manipolazione.
Tolkien l’ecologista
Parlando del romanzo, potremmo tranquillamente dire che quando parla Barbalbero parla Tolkien, e che il messaggio ecologico e contro l’abuso della tecnologia era quello al quale lo scrittore teneva di più. Parlando del film, tocca ammettere che realizzare Barbalbero al computer ha un po’ «bloccato» Jackson e i suoi: il personaggio è meno affascinante che nel libro, e i suoi lunghi, filosofici, spassosi dialoghi con i due hobbit sono abbondantemente tagliati. Nel complesso, il film è stupendo. È più bello del primo, è girato con una potenza visionaria che sfiora la magniloquenza, anche se paradossalmente risulta meno compatto e più discontinuo; e come tutti i numeri 2 di una trilogia, si chiude «aperto» (ricordate il finale di L’impero colpisce ancora, con Han Solo ibernato e Luke Skywalker monco?) e lascia un disperato bisogno di vedere il numero 3. Toccherà aspettare un anno.
Alberto Crespi – 6 gennaio 2003
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