Sulla scia del convegno di Modena, tenutosi il 24 maggio del 2010, per non far cadere un’esperienza che ha arricchito tutti quelli che vi avevano partecipato, l’Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena in collaborazione con l’Associazione romana studi Tolkieniani, ha deciso di istituire un incontro annuale completamente dedicato agli studi delle opere di Tolkien e del gruppo degli Inklings. Si è iniziato nel 2011 a Modena con Mito e verità: la narrazione tra realtà e mistero, seminario che ha visto la presenza di due ospiti d’eccezione. Il primo dei Tolkien Seminar italiani si è tenuto a Modena dal 25 al 27 novembre 2011 ed ha ottenuto il patrocinio della Tolkien Society inglese e della Provincia di Modena. È stata anche l’occasione di un confronto diretto all’interno del Gruppo di studio sullo Hobbit con chi analizza e insegna negli Usa le opere del Professore di Oxford. Il momento pubblico del seminario si è svolto venerdì 25 novembre, nella sede della Camera di Commercio di Modena (via Ganaceto, 134). Alle ore 21, infatti, ad ingresso libero, è stato possibile ascoltare Verlyn Flieger e Giovanni Maddalena nella conferenza Mito e verità: la narrazione tra realtà e mistero.
Mito e verità: la narrazione tra realtà e mistero
La scelta dei relatori non è casuale, naturalmente. Professore di Mitologia e Studi Medievali presso la University of Maryland negli Stati Uniti, Verlyn Flieger è considerata la maggiore studiosa di Tolkien a livello mondiale insieme a Tom Shippey, ha curato Sulle Fiabe e Il fabbro di Wootton Major, dirige la rivista accademica Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review, ha vinto ben due Mythopoeic Award pe i suoi studi e in questi mesi ha dato alle stampe una raccolta di suoi saggi (Green Suns and Faerie, ne abbiamo parlato qui) e il suo secondo romanzo, The Inn at Corbies’ Caww. Insomma, un’autorità del campo. Il suo contributo alla collana Tolkien e dintorni della Marietti è Schegge di Luce, pubblicato nel 2006. Il filo conduttore che lega tutti i capitoli del volume, particolarmente attento all’analisi del Silmarillion, è l’idea che Tolkien abbia accettato e assimilato completamente la teoria sul linguaggio di Owen Barfield (autore di Poetic Diction, pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1928), tanto che questi può essere considerato il pensatore più influente sulla mitologia tolkienana dopo l’autore del Beowulf.
Volendo schematizzare, «la teoria di Barfield/Tolkien potrebbe essere spiegata come una visione ternaria dello sviluppo del linguaggio […] La parola, esattamente come fa la luce, è dunque ciò che permette di vedere cose prima non visibili, sia del nostro mondo sia del mondo immaginario che lo scrittore riesce con fatica e dedizione a sub-creare». Come ci mostra Verlyn Flieger, la piena accettazione da parte di Tolkien della teoria di Barfield ha un’importanza difficilmente sopravvalutabile, visto che è alla radice della sua concezione del linguaggio, dell’attività letteraria mitopoietica e della sua stessa antropologia, secondo la quale «l’Uomo, il Sub-creatore, è la riflessa luce, attraverso la quale dal Bianco si produce, una gamma di colori, senza fine combinati in viventi forme che si muovono fra le menti».
Un legame concreto
Owen Barfield (1898-1997) non è solo il legame tra Tolkien e Verlyn Flieger, ma lega anche i due relatori del Tolkien Seminar. È infatti l’autore di Salvare le apparenze, pubblicato sempre da Marietti 1820 e curato proprio da Giovanni Maddalena, giovane docente di Filosofia teoretica presso la cattedra di Scienze della Comunicazione (Facoltà di Scienze Umane e Sociali) dell’Università del Molise. Autore quasi sconosciuto in Italia, Barfield era un compagno di studi di Lewis a Oxford e l’amicizia con l’autore delle Cronache di Narnia (ai figli di Barfield sono dedicati i primi due volumi) lo condusse, all’inizio degli anni ’30, a essere uno dei principali protagonisti degli Inklings, il circolo che si riuniva all’Eagle and Child Pub per leggere e ascoltare gli scritti inediti dei suoi partecipanti. A differenza di Tolkien e Lewis, Barfield non intraprese la difficile carriera accademica la cui incertezza (già allora!) rendeva problematico il mantenimento della famiglia. Fece per trent’anni l’avvocato continuando a scrivere sulla letteratura. Alcuni dei suoi libri, tra cui Salvare le apparenze, ebbero un certo successo negli Stati Uniti e, una volta in pensione, Barfield si dedicò all’insegnamento nelle università americane dove veniva chiamato per corsi e conferenze. Il suo pensiero, osteggiato o ignorato dal mainstream della cultura accademica, sostiene che l’unico modo per difendere allo stesso tempo ciò che la scienza dice e il senso comune percepisce è quello di accettare che la nostra conoscenza derivi da una realtà che è descritta dalla fisica, ma che è percepita attraverso rappresentazioni, cioè immagini mentali e linguistiche, che formano la nostra coscienza e che sono non “disgiungibili” da essa.
La realtà, quindi, è sempre “partecipata” dalla nostra coscienza, dalle sue immagini, dal suo linguaggio. Ed ecco la teoria che tanto impressionò il giovane Tolkien: il nostro linguaggio, mentale o materiale, è una cosa sola con la realtà di cui partecipa. L’inizio del linguaggio (quello degli elfi, per intenderci con gli amanti di Tolkien) è nel mondo mitico in cui realtà, linguaggio e significato sono una cosa sola. Le parole portano in sé il senso delle cose e pronunciarle, come dicevano i filosofi medievali, “fa accadere le cose”. In alcune delle pagine più belle Barfield racconta come questa unità pervadesse ancora la percezione antica e medievale della realtà prima di perdersi definitivamente negli ultimi quattrocento anni. Eccovi allora, se mai ce ne fosse bisogno, un buon motivo per partecipare al Tolkien Seminar!
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