Fermi lì, è una provocazione! Se non sapete cosa sia, è inutile continuare a leggere. L’Associazione italiana studi Tolkieniani è ben conscia di tutte le atrocità perpetrate dal cosiddetto Califfato islamico in Siria e Iraq e di recente in Francia. L’accostamento non è nostro, ma è riportato in un articolo molto lungo e dettagliato che tocca molti altri punti interessanti, analizzando i tragici fatti di questi giorni e riflettendo sul bacino di coltura dei terroristi nati in Europa. Quel che ci ha colpito è però la provocazione iniziale, che è poi non viene più sviluppato adeguatamente. Quindi, proviamo a farlo noi, avvertendo subito però che l’accostamento è ben fondato e degno di riflessione, soprattutto in un momento come questo in cui il fanatismo religioso sembra diffondersi sempre più. Speriamo che anche voi lettori possiate ragionare su queste cose e magari lasciare qualche considerazione a fondo pagina.
Un carisma apocalittico
Tutto parte dalla palese e incontestabile attrazione che il sedicente Stato Islamico esercita su migliaia di giovani in Europa e negli Stati Uniti, che lasciano tutto per andare a combattere volontariamente tra le sue fila. I successi in campo militare e gli spettacoli diffusi in maniera virale della crudeltà perpetrate sui prigionieri non fanno altro che attirare un piccolo, ma costante flusso di nuove reclute dalle democrazie occidentali benestanti. È un dato di fatto che i commentatori e gli esperti hanno motivato in vari modi: l’emarginazione e l’alienazione delle minoranze musulmane in Occidente; un fervore religioso che trascende la piccolezza della vita quotidiana; anche l’eccitazione estrema per una visione apocalittica del mondo. Non è difficile vedere l’Isis come un’altra raccapricciante conseguenza del moderno capitalismo, un altro della lunga serie di movimenti terroristici che si alimentano dei malcontenti di quest’epoca e delle psicosi dei propri membri. Ma il persistente carisma globale dell’Isis offre qualcosa che lo contraddistingue rispetto agli altri movimenti terroristici: l’idea del Califfato. Lo scorso giugno, il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, si è dichiarato califfo. La grandiosità del proclama è probabilmente sfuggita a molti degli osservatori non musulmani, soprattutto in Europa. Ma in Medio Oriente questa dichiarazione ha acceso entusiasmi contrapposti.
Il Califfato è, infatti, nell’Islam una posizione antica di mille anni e il califfo deve rispondere a determinati requisiti: deve controllare il territorio, deve far rispettare la legge della Sharia al suo interno, e deve discendere dalla tribù Quraysh, la tribù del profeta Maometto. Gli ultimi a farlo sono stati gli imperatori ottomani che si sono attribuiti il titolo fino al XX secolo, ma la loro proclamazione è stata ampiamente respinta perché non discendevano dalla tribù del profeta, essendo di origini turche. Ora, la fedeltà al califfo è un obbligo che i sostenitori dell’Isis ritengono vincolante per tutti i musulmani. E mentre l’affermazione di al-Baghdadi è stata oggetto di divisioni anche all’interno del variegato mondo del jihadismo, deve far riflettere il fatto che i gruppi estremisti lontani tra loro come quelli in Nigeria (Boko Haram) e Libia (Al Shabab) abbiano fatto voto di fedeltà al Califfo, anche se questo può essere stato solo un atto formale.
Nelle analisi degli esperti occidentali, l’idea del califfato e il suo evidente fascino sembrano essere un’idea esotica o addirittura ridicola, il più delle volte messa da parte. Un modello di Islam fanatico transnazionale è del tutto anacronistico nel XXI secolo, secondo molti commentatori. «L’idea del califfato codifica un ordine morale che trascende non solo i confini dello Stato nazionale, ma anche la logica morale alla base del concetto di Stato». È una sorta di fantasia politica o fanta-politica pensare di tornare indietro di mille anni. Il cuore della sua affermazione è però il sogno imperscrutabile di una sovranità legittimata religiosamente o, da un altro punto di vista, di un delirio adatto a molte forme, una nostalgia intrisa di sangue la cui pretesa di un ritorno all’antichità è la sfida più estrema alla mentalità dell’uomo moderno e alle sue conquiste democratiche. L’Isis e la sua ideologia violenta e reazionaria è totalmente in contrasto con l’etica della democrazia e del progresso delle moderne società laiche. Ma il mito su cui il suo fascino si basa – il fascino di vivere in un mondo con un ruolo ben definito e la sicurezza nel trascendente – non è così estranea all’Occidente come sembra. Moltissima gente in Europa ama il cosplay medievale, in molti vestono i costumi dei templari e nelle sessioni di gioco vanno a combattere gli infedeli. Colpisce come in uno dei video meno sanguinosi dello Stato islamico diffusi sul web viene mostrato un gruppo di jihadisti mentre bruciano i loro passaporti britannici, francesi e australiani. A quanto pare, queste persone, tutti cittadini “occidentali”, vogliono proprio vivere sotto un califfo, sotto una legge che proviene da Dio, di cui hanno una sicurezza concreta.
Il ritorno del re medievale
Lungi dall’essere un impulso parodistico dell’Islamico o una fantasia di un nerd («qualcosa che si può realizzare con gli amici nella cantina di tua madre», come ha detto un esperto di antiterrorismo statunitense), il mito del Califfato riecheggia sogni di una legittimità trascendente che sono profondamente radicati nella cultura e la letteratura europea. E un parallelo diretto lo fornisce proprio Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Da quando è stata pubblicata, l’epica del professore di Oxford non ha fatto che crescere in autorevolezza per la critica letteraria e come presenza commerciale. Da buon conoscitore della letteratura e delle storia del Medioevo, Tolkien inserisce un tema che da quell’epoca proviene. Uno dei filoni del romanzo è, infatti, la proclamazione che Aragorn fa come re degli uomini, discendente di Númenor, legittimo erede del trono ancestrale di Gondor da mille anni vacante. All’inizio della storia, Aragorn è un personaggio particolarmente dimesso e rustico, sotto le spoglie di Grampasso: molte delle sue scelte sono fallimentari. Nel corso del racconto, però, si dimostra sia un erede biologico sia lo specchio fedele dei suoi antenati regali. La sua autorità trascendente è ben visibile e, di tanto in tanto, Aragorn brilla come «un re che tornava nel suo Paese dopo un lungo esilio» (SdA IV, 9). Una luce circonda la sua testa in momenti particolarmente regali, come ad esempio quando estrae la spada davanti a diversi potenziali alleati, nel suo primo incontro con i Rohirrim.
In ogni caso, il problema della legittimità e della fedeltà è presente in tutta la storia. La discendenza reale si era spenta a Gondor mille anni prima, durante i quali hanno governato i Sovrintendenti. Ma «a Gondor non basterebbero diecimila anni» (SdA IV, 5) per permettere ai Sovrintendenti di ergersi al rango di re. Gli antichi segni della regalità – in particolare un spada di tremila anni prima, «la spada che fu spezzata» – sono fondamentali ad Aragorn per convincere un popolo a lungo senza re ad accettarlo come tale. Il personaggio ha la tendenza a gridare il nome del suo più illustre antenato quando si scontra in battaglia e ad attirare giuramenti incondizionati di fedeltà. Quando Faramir viene guarito da Aragorn – grazie al suo particolare, e regalmente unico, tocco taumaturgico – il figlio del Sovrintendente, guardandolo chino su di lui, lo vedrà in maniera diversa: «I suoi occhi brillarono d’una luce di coscienza e di affetto». «Mio sire, mi hai chiamato. Sono venuto. Cosa comanda il re?», dice Faramir al suo risveglio nelle Case di Guarigione. «Chi potrebbe rimanere ozioso, ora che il re è tornato?». (SdA V, 8). Per alcuni lettori di Tolkien, che applicano al romanzo le proprie convinzioni politiche, questa è una forte scena di “epifania” e che legittima la loro idea di trovare un re per cui si possa impegnare la propria spada senza dubbi ed esitazioni. Per fortuna, si tratta di una lettura ampiamente screditata e smentita da tutti i maggiori studiosi tolkieniani al mondo.
Nostalgia del passato e fanatismo religioso
Tali momenti, che hanno un sapore un po’ kitsch per qualsiasi lettore in quest’epoca post-moderna, sono il retaggio del mito medievale della intrinseca legittimità che solo il trascendente può dare, che si possa regnare solo grazie alla volontà di Dio. Da scrittore moderno, Tolkien era consapevole di questo rischio e per lui non sarebbe stato difficile enfatizzare scene d’azione o d’eroismo su Aragorn: non è un caso che il centro del romanzo siano le gesta degli Hobbit, in particolare Frodo e Sam. La sua opera eccezionale è infatti molto diversa dalla norma: lo scrittore moderno è riuscito a creare una storia ampia, in senso diacronico e sincronico, quasi quanto quella dell’Europa. Poi vi ha inserito a margine l’idea medievale di un potere trascendente, di diritto intrinseco che – a differenza delle più disparate ispirazioni nel mondo reale – in realtà funziona bene come movente parallelo alla storia principale. Lo stesso scrittore lo spiega nelle lettere. La storia di Arwen e Aragorn «in questo racconto non è centrale, ma vi si fa solo qualche allusione» (n. 153) e «non poteva essere inserita nel racconto principale senza distruggerne la struttura» (n. 181).
Il parallelo tra la versione di Tolkien di restaurazione e quella di al Baghdadi si ferma qui, è limitata. Aragorn mostra la sua magnanimità nella vittoria, non si abbandona alle decapitazioni di massa. La mitologia di Tolkien, a differenza di quella di Isis, è non-apocalittica in maniera forte. Lo scrittore inglese era consapevole del potenziale distruttivo dell’idea del potere legittimato dal trascendente e ne fa solo un uso strumentale. La vicenda di Aragorn, come detto, non è il centro del romanzo e si conclude addirittura fuori di esso. Sono gli Hobbit e Frodo i protagonisti della storia ed di loro che si narrano le vicende.
Ma per molti lettori, a quanto pare, persiste il brivido di trovare un re a cui poter consacrare la propria spada senza scrupoli o esitazione. Infatti, si sostiene talvolta che la «politica palesemente adolescenziale» della Terra di Mezzo di Tolkien rappresenti un modello vero e valido per alcune persone nel mondo reale. Anche in Italia per lungo tempo questa è stata l’idea predominante.
L’autorità legittimata dal sangue e le virtù miracolose legate alla discendenza diretta e all’imitazione del passato eroico, minano alla radice il concetto moderno di governo basato sul contratto sociale, che si è andato costruendo dall’Illuminismo a oggi. Il romanzo fa anche un’allusione indiretta a quest’aspetto del fascino verso il potere trascendente del re attraverso il personaggio di Arwen, la dama elfica promessa sposa di Aragorn. Dovendo scegliere tra l’immortalità elfica e una vita mortale col re nel nuovo regno restaurato, preferisce quest’ultima via. Le sue due identità in contrasto si risolvono in questo gesto eroico, con la scelta di Lúthien. Arwen sacrifica le conquiste più alte e le comodità della civiltà elfica per bruciare il suo passaporto…
Articolo estremamente piacevole ma la tesi credo sia un po’ stiracchiata.
A mio modo di vedere la legittimazione di Aragorn non proviene mai da fonti o aspetti trascendenti, così come in tutto il romanzo non si manifesta direttamente nessuna divinità. Nemmeno gli istari, che al limite potrebbero essere presi per rappresentanti dei Valar, hanno il ruolo di legittimare il ritorno del re. Certo, Gandalf si adopera perché tale ritorno avvenga, ma non si può dire che sia lui a legittimare l’incoronazione di Elessar.