Nato a Fermo nel 1981, Cesare Catà vive a Porto San Giorgio, dove è anche assessore alla cultura. Ha ricevuto nel 2008 il Dottorato in Storia della Filosofia del Rinascimento presso l’Università di Macerata. È stato inoltre visiting scholar presso la University of Hawaii at Manoa (USA), lo University College of Dublin (Ireland), e Gastforscher presso il Cusanus-Institut della Theologische Fakultät di Trier (Germania). I suoi principali ambiti di ricerca e didattica riguardano la Filosofia Rinascimentale, l’Estetica e l’Ermeneutica (in particolare uno studio in chiave filosofica di alcuni autori della moderna letteratura inglese, tra cui Shakespeare, John Keats, Jane Austen, William B. Yeats, J.R.R. Tolkien, Dylan Thomas). Dal 2008 è direttore artistico del teatro di Porto San Giorgio. È inoltre autore di “Una filosofia del Fantastico. Tradizione, Sapienza e creature fatate sui Monti Sibillini”, che uscirà a novembre per i tipi del Cerchio. È anche responsbile culturale del Montelago Celtic Festival, che si svolge agli inizi di agosto sull’altopiano di Colfiorito, a Taverne di Serravalle (Macerata). Per l’occasione ci ha concesso un’intervista, che ci permette di conoscere meglio il suo lavoro, il metodo e i progetti futuri.
1) Una definizione di letteratura fantastica e di fantasia?
«A fondamento della grande letteratura fantastica c’è un ideale filosofico concernente la realtà. Se, come accade nel fantasy, la “fantasia” non è intesa come un mero fantasticare, ma come una modalità per conoscere più profondamente l’essenza delle cose (come una “facoltà gnoseologica”, potremmo dire), questo accade in quanto la realtà viene vista, in ultima analisi, come un mistero. Un mistero che non si dà in evidenza, nell’apparire dell’essere, ma nella sua parte più profonda e vera, custodita e nascosta. Alla luce di una tale concezione del reale, la fantasia, necessariamente, diventa uno strumento utile e necessario, non per “deviare” dalla realtà: bensì per approfondirla, nei livelli insondabili di ciò che non si può mostrare ai cinque sensi e al discorso raziocinante. Un maestro fondatore del genere fantastico, come C.S. Lewis, ha detto una volta che, nell’utilizzo della fantasia e del mito, “non si evade dalla realtà. La si riscopre. È proprio nel momento in cui le storie indugiano nella nostra mente, che le cose divengono più vere”. È la medesima concezione espressa da Antoine de Saint-Exupèry, quando in quel capolavoro filosofico della letteratura fantastica che è Il piccolo Principe, scrive la celeberrima frase: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Non è un caso che un netto rifiuto di questa concezione della realtà si abbia, nella cultura europea, con il predominare, nella Modernità, della visione dell’Illuminismo: in base alla quale, fondamentalmente, la realtà è ridotta a pura apparenza analitica e indagabile, a ciò che è “visibile agli occhi”. È una contrapposizione frontale rispetto alla cultura Medievale e Rinascimentale, in cui l’imaginatio, o phantasia, intesa appunto come facoltà gnoseologica, svolge un ruolo importantissimo. Si pensi, per fare un
esempio tra moltissimi altri, alla Ars Imaginandi del filosofo francescano Raimondo Lullo. In questa prospettiva, la realtà è concepita essenzialmente come mistero; e il mistero non può che rivelarsi all’uomo che per simboli, tra specchi ed enigmi, che quasi sempre assumono forme mitiche e fiabesche».
2) Dall’Ottocento in poi qualcosa è cambiato?
«Sì. Un recupero decisivo di questa concezione avviene proprio in epoca romantica, nel più generale contesto di una rivalutazione e rivisitazione profonda della cultura medievale; ed è su questa linea culturale che possiamo interpretare la ri-fondazione della “letteratura fantastica” nel Novecento. Le culture folkloriche, legate alle fiabe popolari, assumono un’importanza davvero vitale nella nascita e nello sviluppo della letteratura fantastica. Ciò che Tolkien, sullo sfondo di ben precisi parametri ideali della cultura medievale, svolge tramite un utilizzo a piene mani delle mitologie celtica e norrena, risulta essere un tratto distintivo del fantasy».
3) Letteratura fantastica, folclore e fiabe hanno qualcosa in comune?
«Nello sviluppo del genere fantastico, oggi in Italia, il quale prospetta numerose produzioni di grande interesse e valore, un ruolo non secondario spetta alla riscoperta, valorizzazione e utilizzo letterario delle fiabe e delle leggende tradizionali locali. Il fantasy si rivolge in modo direi quasi “strutturale” al folclore delle leggende, delle fiabe e delle tradizioni popolari. Tale bagaglio folclorico risulta essere una “via regia” di accesso a quella realtà “celata” con cui il fantastico ha a che fare. Le fiabe e leggende popolari svolgono quindi un ruolo fondativo nel contesto del fantastico, un ruolo parallelo e gemello rispetto a quello del mito. Ecco che quindi un recupero attento di questa tradizione risulta essere connesso in maniera diretta allo sviluppo del fantasy e alla sua produzione, sino alle opere più recenti. Al centro di questo recupero delle tradizioni fiabesche e leggendarie popolari, che risulta essere inscindibile dall’essenza stessa di ciò che noi definiamo oggi “letteratura fantastica”, vi sono alcune operazioni culturali e letterarie di vitale importanza nei confronti di tali culture. Mi riferisco, ad esempio, al grande lavoro svolto da Ludwig Tieck, da Novalis e dai fratelli Grimm in Germania, così come da Katharine Briggs in Inghilterra, da Alexandr Puškin in Russia, da Venceslaus Ulricus Hammershaimb nelle isole Far Øer, e da autori come William Butler Yeats, Lady Gregfory, Lady Speranza Wilde, Thomas Crofton Croker, Lord Dunsany e Ella Young in Irlanda; in Italia, un’operazione simile è stata svolta, a suo modo, dal famoso lavoro di Italo Calvino, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti».
4) Calvino e suo lavoro sono presenti anche nel libro Una filosofia del Fantastico?
«Esatto. Nell’ottimo lavoro di Calvino (forse proprio in ragione della sua volontà di mantenersi distaccato da ogni accento “romantico”?), rimase inesplicato, nel vasto panorama da lui offerto, un bagaglio di cultura folclorica fiabesca preziosissimo, uno dei più ricchi dell’intera penisola. Mi riferisco alle innumerevoli e straordinarie leggende e fiabe provenienti dalla cultura dei Monti Sibillini, nelle Marche, tra le province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata. Sebbene il lavoro di Calvino concedesse, al suo interno, quattro fiabe al territorio delle
Marche, tali fiabe non provenivano dal bacino culturale dei Monti della Sibilla; e con ciò quel bacino rimase (sino a studi assai recenti di carattere soprattutto antropologico e mitologico) un tesoro quasi del tutto inesplorato. È sufficiente uno sguardo molto rapido sulla cultura Sibillina e sull’importanza che essa rivestì tra Medioevo e Rinascimento, per comprendere la portata di quanto sto dicendo».
5) Qualche esempio del patrimonio delle leggende dei Monti Sibillini?
«La grande cultura popolare dei Monti della Sibilla, nella Marca del sud, è viva ancora oggi e le sue leggende popolari presentano tratti di estremo valore, protagonisti della cultura europea tra XIII e XVI secolo. Anzitutto, è il nome stesso di questa terra a risultare importante: i Monti della Sibilla sono così chiamati per la montagna omonima in esso presente, il Monte Sibilla, così denominato per la presenza della grotta incantata in cui una “Sibilla” — donna mitica in cui si assommano simbologie stratificate pagane e cristiane di secoli differenti — avrebbe dimora. Alla Sibilla, si accompagna uno stuolo di fate che, come dicono antichi racconti che le descrivono puntigliosamente negli abiti e nell’aspetto semi-zoomorfo, non di rado amano abbandonare il rifugio incantato della grotta, per abbandonarsi a danze con i ragazzi del luogo. L’altro grande cespite delle leggende Sibilline è connesso con la montagna che fronteggia il Monte Sibilla, dalla forma maschile così come femminile è quella del Sibilla: il Monte Vettore, il più alto della catena. Qui, a 1941 metri sul livello del mare, c’è uno specchio d’acqua noto come “lago di Pilato”. Il nome nasce dalla leggenda che vuole queste acque come il luogo in cui venne a morire l’assassino di Cristo, Ponzio Pilato. Le leggende legate alla profetessa, a un tempo ieratica sacerdotessa custode della sapienza e maledetta incantatrice erotica foriera di infinite sventure, sono innumerevoli e straordinarie. Esse sono narrate anche da testimoni dello spessore di Andrea da Barberino, che sui Monti della Sibilla ambientò il fulcro del suo Guerin Meschino, o del famoso cavaliere e pedagogo quattrocentesco Antoine de La Sale. Dal XIII secolo e fino a tutto il XVI, tanto la grotta che il lago furono motivo di sviluppo di numerosissime leggende fiabesche popolari, alimentati dall’arrivo incessante di cavalieri, negromanti, pellegrini, santi, eretici a questi luoghi, da ogni parte d’Europa: come testimonia il documento di un processo della Inquisizione intentato contro gli abitanti della città di Montemonaco per aver aiutato “pellegrini e negromanti provenienti da ogni dove” a raggiungere, per scopi più o meno oscuri, le impervie cime di questi monti. Tra le tante leggende fiabesche connesse con questi luoghi, vi è quella secondo cui, in una notte di mezzaluna, alcune fanciulle di straordinaria bellezza, dai capelli rossi e biondi, mai vedute prima, accorsero a danzare con i giovani pastori del borgo chiamato Foce, alle pendici del Vettore. Percependo uno strano rumore durante il loro ballo, uno di quei giovani fu così ardito da sollevare la gonna a una delle fanciulle, e si accorse che, dal polpaccio in giù, esse avevano forma di capre e zoccoli caprini. Subito le fanciulle scapparono tra i monti, correndo velocissime; nella loro corsa, lasciavano la scia di un sentiero creato dalle zolle sollevate, le pietre spaccate e i rami spezzati dai loro zoccoli. Un sentiero che conduce proprio alla grotta dove ha dimora la Sibilla, regina delle Fate.
Altre numerose leggende si riferiscono invece ai Mazzamurelli, folletti alti circa un palmo, così simili ai Leprechaun irlandesi, che sono protagonisti di storie straordinarie, ambientate su queste montagne. In effetti, se quella che può essere considerata la “summa” della cultura fantastica medievale, cioè il Guerin Meschino di Andrea da Barberino, trova sui Monti Sibillini, e specificamente nella grotta della Sibilla, il suo principale luogo di ambientazione, ciò non è senza significato. In questi secoli, i Monti della Sibilla sono stati il luogo “magico” più celebre d’Italia, conosciuto molto al di là degli attuali confini nazionali. Oltre al già citato Antoine de La Sale, furono molti i cavalieri provenienti da diversi luoghi d’Europa che giunsero a queste montagne in cerca del “Graal”. E dei Sibillini come luoghi di leggende straordinarie, in questi anni, parlano, tra gli altri, Luigi Pulci (che più di una volta visitò i Monti incantati della Marca), Ludovico Ariosto, Enea Silvio Piccolomini. Quest’ultimo, in una lettera in cui accenna a come sia a conoscenza di una grotta in cui vive una Fata, nei Monti Sibillini, afferma una cosa interessante, dicendo di non voler conoscere oltre sull’argomento, in quanto non interessato a quella conoscenza che implica un “peccato” per essere conosciuta… Un “peccato” derivante dall’ascolto di cose “proibite e fantastiche”. Per molti versi la cultura dei Monti della Sibilla, che risulta protagonista del sapere connesso alla phantasia tra Medioevo e Rinascimento, presenta tratti accostabili a quelli della cultura celtica irlandese che prese forma soprattutto nell’Occidente dell’Isola, dove, come nei Monti della Sibilla, vennero a incontrarsi, attorno alla montagna del Ben Bulben, culture pagane e Cristianesimo, dando vita a una vasta e formidabile schiera di leggende fiabesche popolari».
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