Riceviamo e volentieri pubblichiamo la recensione ad opera di Wu Ming 4 al volume di Alessandro Dal Lago Eroi e mostri Il fantasy come macchina mitologica (2017, €18), appena pubblicato da Il Mulino e che rappresenta, come scrive il recensore, «un salto indietro di almeno cinquant’anni nella storia della critica letteraria». L’autore Alessandro Dal Lago ha insegnato Sociologia della cultura nelle Università di Milano, Bologna, Genova e all’estero. Fra i suoi numerosi libri segnaliamo, per il Mulino, «Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio» (20012), «Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel» (1994) e, con Serena Giordano, «Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea» (2006), «L’artista e il potere. Episodi di una relazione equivoca» (2014), «Graffiti. Arte e ordine pubblico» (2016). Con quest’ultimo volume, però, si manifesta come l’erere di quella intellettualità progressista che in Italia portò all’iniziale snobismo degli ambienti editoriali e accademici nei confronti della letteratura fantastica.
La critica principale di Dal Lago è che nel Signore degli Anelli non ci sia profondità morale. Invece, nelle storie di Tolkien c’è una lotta interiore che si rispecchia in quella esteriore. Non c’è però lotta tra le classi, non c’è attrito sociale, inutile cercare col lanternino. Tolkien non era di sinistra, era un cattolico preconciliare che vedeva la diffusione della stampa operaia come il fumo negli occhi ed era perfino contrario al divorzio. Ma le problematiche le affronta tutte sul piano etico, morale, psicologico, a volte perfino teologico, non su quello delle strutture economiche o dei conflitti sociali. E nella sua opera narrativa lui è riuscito a svolgere uno dei più interessanti lavori sugli stili eroici, messi in conflitto l’uno con l’altro, della letteratura europea contemporanea. È per questo motivo che siamo lieti di proporre ai lettori una recensione di chi i libri li legge e analizza in profondità. Buona lettura!
I MOSTRI, GLI EROI E I CRITICI
note sul saggio di A. Dal Lago «Eroi e mostri – Il fantasy come macchina mitologica»
1. A volte ritornano
Pare incredibile che nell’anno di grazia 2017 qualcuno si getti anima e corpo in un attacco a Tolkien, Lewis, e agli Inklings, riproponendo una sfilza di luoghi comuni usciti direttamente dagli anni Cinquanta del secolo scorso.
Eppure è proprio questa la sensazione che si ha leggendo il saggio del sociologo Alessandro Dal Lago “Eroi e mostri” (Il Mulino, 2017, €18). In particolare si ha l’impressione di trovarsi tra le mani il risultato di una lettura bulimica della letteratura primaria e secondaria, utile a suffragare con un minimo di bibliografia aggiornata un vecchio pregiudizio, senza assimilare nulla del dibattito critico degli ultimi decenni.
La buona vecchia tesi è riassumibile in poche frasi. La narrativa di Tolkien e Lewis rifuggirebbe «la complessità morale del mondo», sposando «una opposizione manichea tra il bene e il male» (p. 26); i due rifondatori del genere fantastico contemporaneo sarebbero alfieri di «un’epica passatista. O, meglio, di un’epica per famiglie, depurata da qualsiasi tentazione di complessità morale, pluralità di prospettive e profondità filosofica, per non parlare di erotismo o altre inclinazioni letterarie tipicamente moderne. E proprio questo aspetto costituisce uno dei motivi dello straordinario favore di Tolkien (e continuatori) presso il pubblico: una rocciosa isola di tradizionalismo fantastico nel mare agitato della modernità letteraria» (p. 40).
Insomma la fortuna di Tolkien & soci dipenderebbe dal fatto che offrirebbero ai lettori moderni una visione del mondo tradizionalista, in grado di titillare il loro inconscio desiderio di antiche certezze. Non solo. I padri nobili del genere fantasy, seguiti dai loro epigoni, sarebbero colpevoli di avere depurato l’antica poesia nordica dalle sue ambiguità di giudizio sulle figure eroiche, in favore della fascinazione latente nella cultura occidentale per la guerra e la violenza, che permane nel genere ancora oggi. In poche parole, questi autori sarebbero stati e sarebbero culturalmente perniciosi.
Per sfortuna di Dal Lago, almeno dagli anni Ottanta a oggi la critica letteraria su Tolkien ha fatto passi da gigante. Risulta incredibile come nel XXI secolo si possa affermare che nell’opera di Tolkien non vi sia profondità morale, o che in essa non siano implicite questioni filosofiche, o perfino che essa inneggi alla guerra. L’opera omnia di studiosi pionieristici come Tom Shippey e Verlyn Flieger; o i singoli saggi di Brian Rosebury, W.H. Green, Christopher Garbowsky, Matthew Dickerson, Patrick Curry; o ancora gli studi di Janet Brennan Croft, e tanti altri, stanno lì a dimostrare il contrario. A meno di ignorare quanto costoro hanno scritto nell’arco dei decenni e quindi il dibattito internazionale, è ben difficile riproporre certe affermazioni senza rendersi ridicoli. Ma in Italia su Tolkien ci si è sempre spudoratamente permessi tutto, quindi perché rovinare una così ben consolidata tradizione?
2. Eroi & Orchi
Quello che salta agli occhi nel saggio di Dal Lago è l’assoluta scorrettezza del metodo argomentativo. La qual cosa risulta tanto più bizzarra se si pensa che l’autore è un docente universitario. La strategia espositiva è presto detta: ogni affermazione dell’autore si presenta povera o addirittura priva di pezze d’appoggio testuali e ogni elemento che la contraddice viene considerato un’eccezione oppure ignorato. Ecco un primo esempio:
«La giustizia trionferà e i malvagi saranno sconfitti – in questo senso i due libri fondamentali di J.R.R.Tolkien, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, costituiscono davvero le pietre miliari del fantasy nel nostro tempo. Ma è proprio qui che si misura la distanza tra queste riletture del fantastico medievale e le loro fonti classiche. Dove anticamente gli eroi fallivano o mostravano qualche irredimibile lato oscuro, oggi sono per lo più senza macchia e senza paura» (p. 38).
Ogni lettore di Tolkien sa che il protagonista del primo romanzo citato da Dal Lago, Bilbo Baggins, tutto è fuorché “senza paura”, e il deuteragonista, Thorin Scudodiquercia, tutto è fuorché “senza macchia”. Che dire del protagonista del secondo romanzo, Frodo Baggins, che viene sopraffatto dal potere dell’Anello e – per usare le parole di Tolkien stesso – “fallisce come eroe”? Per non parlare degli eroi tragici e ambigui del Silmarillion, come ad esempio Túrin, ricalcato sulle figure mitologico-leggendarie di Edipo e Kullervo, che muore suicida dopo avere scoperto di avere messo incinta la sorella. E tuttavia per Dal Lago “Gli amori incestuosi, che abbiamo visto comuni nella letteratura medievale […] sono del tutto assenti nel mondo di Tolkien” (p. 152).
Ed ecco un altro esempio di questa modalità argomentativa, in questo caso a proposito della rappresentazione del male:
«L’intenzione teologico-morale evidente in questi libri ha un prezzo: la personificazione del male sia in figure che rappresentano varianti di Satana (come Sauron in Il Signore degli Anelli), sia in altre che lo servono in virtù del loro aspetto ripugnante e deforme, cioè di quello che sono (giganti, troll e soprattutto orchi). […] è difficile sfuggire alla sensazione che esse siano malvagie perché orrende, e viceversa, e quindi prodotti di un vero e proprio determinismo» (p. 39). […] «i mostri di Tolkien non albergano sentimenti umani, ancorché nascosti da corpi ripugnanti, ma sono puri e semplici gargoyle, insensibili maschere di pietra che hanno il compito di dare risalto, per contrasto, alla bontà e al coraggio degli eroi positivi» (p. 39).
Si sa che gli orchi tolkieniani nascono dalla corruzione violenta degli elfi operata da Melkor, dunque non sono per natura malvagi, ma vittime essi stessi del male. Infatti hanno sentimenti umani, ancorché meschini, nonché una struttura sociale, una lingua, una storia, conflitti interni, contraddizioni personali. Ce ne si rende conto osservando i rapporti contrastanti tra Uglúk e Grishnákh o tra Shagrat e Gorgbag nel Signore degli Anelli. Tanto è vero che più avanti nel saggio, Dal Lago stesso è costretto a tornare sulle sue affermazioni e a rendere conto di questa “umanità” intrinseca. Ma lo fa solo per prodursi in un altro goffo tentativo di portare acqua al mulino della propria tesi, affermando che gli orchi sarebbero un’allegoria dei “lavoratori industriali”, insomma della classe operaia come “classe pericolosa”, e che Tolkien avrebbe condiviso “l’idea che il lavoro abbia a che fare con l’abisso, le caverne, i cunicoli, la deformazione fisica e ovviamente morale” (p. 107-108).
Senza alcun pudore Dal Lago pretende di scambiare la ben nota critica tolkieniana all’industrialismo con la stigmatizzazione della classe operaia. Questo è tanto più imbarazzante perché uno dei capostipiti di quella critica fu l’ispiratore letterario di Tolkien, cioè William Morris, che aveva nutrito l’utopica (e certo borghesissima) speranza di salvare i lavoratori dalla fabbrica e dalla miniera per restituire loro la creatività del lavoro artigiano. Lavoro che in Tolkien infatti è esaltato presso Hobbit, Nani ed Elfi, laddove produce appunto cose belle e utili. Al contrario gli orchi, come viene narrato ne Lo Hobbit (e citato da Dal Lago stesso!), producono armi e strumenti di tortura, e spesso «li fanno fare, su loro disegno, ad altra gente, prigionieri e schiavi che devono lavorare fino a che non muoiono per mancanza di aria e di luce». Volendo proseguire nel giochino allegorico di Dal Lago si dovrebbe dire che questi orchi sono assai più simili ai padroni delle ferriere che agli operai che ci lavoravano dentro tra XIX e XX secolo. Ma appunto, è un esercizio che si commenta da solo.
Ed ecco un terzo esempio, questo davvero crasso:
«Con tutto ciò, la rappresentazione del male è fatalmente univoca e non lascia spazio ad alcuna considerazione sulle motivazioni o i punti di vista dei malvagi. E nemmeno a forme di pietà» (p. 39).
Nei romanzi di Tolkien non c’è il punto di vista soggettivo dei malvagi come Melkor o Sauron, ma c’è il punto di vista dei buoni che cedono al male, altroché: Thorin, Saruman, Denethor, Boromir, ecc. C’è un’ampia gamma di sfumature dell’insinuarsi del male nell’animo umano e delle motivazioni che lo determinano. Su tutti valga il discorso di Saruman sulla necessità di adeguarsi al trend politico, di cavalcare l’onda montante, pensandosi più furbi della storia, che è un pezzo di letteratura indiscutibilmente attuale e figlio di una riflessione moderna. Inoltre, se c’è una qualità che tutti sanno contraddistingue gli eroi positivi di Tolkien è precisamente la pietà. Chiunque abbia letto Tolkien sa che la pietà nei confronti di Gollum, che per Dal Lago è una “parziale eccezione”, è la chiave dell’eucatastrofe finale. In generale, se c’è un messaggio reiterato nella narrativa di Tolkien è: uccidi soltanto per non essere ucciso, non somministrare la morte a tuo proprio giudizio. E questo vale soprattutto nei confronti delle creature malvagie. Ciò nonostante Dal Lago più avanti non ha remore a dichiarare che “i personaggi buoni di Il Signore degli Anelli ricorrono ampiamente alla violenza. Come gli elfi, che qui rappresentano una sorta di nobiltà guerriera, anche se non precisamente umana: essi uccidono tutti gli estranei, uomini, nani, che osano avventurarsi nel loro territorio” (p. 143).
Ecco, l’intero saggio è basato su affermazioni infondate e risibili di questo genere, che poi Dal Lago usa per trarre le sue conclusioni.
3. Beowulf, Artù e Beorhtnoth
Un’altra affermazione impegnativa di Dal Lago riguarda il lavoro letterario e accademico di Tolkien e Lewis, che a suo dire avrebbe ripulito dalle contraddizioni le fonti mitologiche e medievali, restituendoci un’immagine edulcorata del medioevo, della letteratura e della mitologia:
«Il medioevo di Tolkien, sia nelle trasfigurazioni narrative, sia nell’opera di studioso, è curiosamente innocente e trasparente, privo di ambivalenze, conflitti culturali intestini e residui barbarici» […] «ritengo che tutto il gruppo in questione (i cosiddetti Inklings) abbia operato una sorta di semplificazione critica della mitologia che i partecipanti travasavano nelle loro storie e nei loro poemi. La conseguenza è che, data la loro autorevolezza di studiosi e lo strepitoso successo di alcuni di loro come narratori, il fantasy che essi hanno contribuito a creare reca le tracce e perpetua i contenuti di una visione edificante e sterilizzata di una delle fonti primarie della cultura occidentale, ovvero la mitologia nordica» (p. 43).
In particolare la celebre conferenza di Tolkien sul Beowulf (1936) fornirebbe un’immagine semplicistica dei mostri del poema, non già come alter ego dell’eroe e suoi doppi, ma come creature aliene, disumane, completamente maligne. In questo senso, dunque, la lettura tolkieniana del poema sarebbe appiattita sulla concezione cristiana del conflitto bene/male.
Dal Lago dimentica di dire che la conferenza tenuta da Tolkien è di argomento filologico. In quell’occasione Tolkien indaga la mentalità e le istanze sottese alla scrittura del poema stesso, cioè il lavoro poetico dell’anonimo autore cristiano alle prese con la materia pagana. Tolkien parla proprio di come nella riscrittura cristiana i mostri divennero incarnazioni del male e del peccato; il suo è un discorso meta-narrativo. Ciò che Dal Lago attribuisce a Tolkien è in realtà ciò che Tolkien attribuisce all’autore del Beowulf (che definisce i mostri “nemici dell’umanità”, v. 164).
Di fronte a questo proditorio equivoco, non stupisce quindi che Dal Lago non nomini nemmeno la riscrittura del Beowulf operata da Tolkien stesso, cioè Sellic Spell – Il racconto meraviglioso. Altrimenti avrebbe dovuto dare conto del fatto che il Tolkien narratore espelle gli inserti cristiani introdotti dall’autore del poema, per immaginare come potesse essere la storia originale, e fa dell’eroe un berserker, un uomo-orso, in parte umano e in parte belva.
Più avanti Dal Lago non può esimersi dal constatare che il personaggio di Gollum rappresenta una sorta di riscrittura dell’orco Grendel come doppio dell’eroe, e che si tratta del personaggio più ambiguo e complesso della narrativa tolkieniana (p. 139). Tuttavia si guarda bene dal trarre qualsivoglia conclusione da questo riscontro, proprio perché confuta con ogni evidenza la tesi che lui vuole sostenere.
A tratti questa modalità bislacca di procedere sfiora la mistificazione, ancorché maldestra. È il caso dell’arcinota avversione di Tolkien per il carico simbolico religioso che il ciclo arturiano aveva accumulato nel corso del medioevo, ribaltata da Dal Lago nel suo contrario. Dal Lago basa la sua critica sul fatto che l’Artù di Tolkien combatte contro i Sassoni e quindi è “un campione della cristianità” che si batte contro il paganesimo (p. 68). Se c’è un aspetto che ha un peso marginale ne La caduta di Artù di J.R.R.Tolkien è precisamente questo, anche perché il poema incompiuto si concentra sul tradimento di Mordred, mentre la guerra in Germania funge più che altro da premessa. Così, mentre si dedica al confronto tra l’Artù tolkieniano tutto d’un pezzo e quello maloryano ambiguo e contraddittorio, Dal Lago si dimentica un dettaglio da niente come il Graal. Quando ne parla deve chiamare in causa Lewis e Williams (p. 84-90), infatti, e abbandonare Tolkien, cioè quello degli Inklings che operò la liberazione – non particolarmente felice sul piano letterario, forse, ma impossibile da ignorare sul piano concettuale – della figura di Artù dall’aura mistico-cristiana sedimentatasi sulla leggenda.
La terza prova a carico è forse quella più grottesca, e sarebbe il lavoro di Tolkien sul poemetto La Battaglia di Maldon, dal quale il saggio di Dal Lago pretende di dedurre una granitica difesa dell’eroismo nordico. Poiché infatti Tolkien riscontra nel testo medievale una pesante critica all’ofermod/orgoglio del conte Beorthnoth, ma salva l’eroismo dei suoi sottoposti che scelgono di morire con lui, «i veri eroi sono i suoi uomini, che combattono e muoiono per ‘obbedienza e amore’. E quindi Tolkien esalta l’eroismo nordico (lo fa in tutta la sua opera e lo ripete nelle lettere)» (p. 127). A un’affermazione del genere risponde Tolkien stesso (nel testo che in teoria Dal Lago starebbe commentando):
«Questo ‘spirito eroico nordico’ non si presenta infatti mai allo stato puro: è sempre una lega d’oro e di un metallo meno nobile […] costituito dal buon nome personale. […] Ma questo elemento d’orgoglio, sotto forma di aspirazione a onore e gloria, in vita e dopo la morte, tende a dilatarsi, a divenire un movente fondamentale, inducendo chi lo fa proprio, al di là della mera necessità eroica, all’eccesso cavalleresco, indubbiamente tale, anche se approvato dall’opinione coeva, qualora non solo trascenda la necessità e il dovere, ma con essi addirittura interferisca». (Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Bompiani, 2010, p. 59)
Per Tolkien lo spirito eroico nordico è una lega composta da genuino eroismo e orgoglio, ma è il secondo elemento che tende a diventare il movente principale dell’agire dell’eroe fino a fargli perdere di vista il dovere e la necessità. Dunque l’ofermod è un elemento di problematicità intrinseco dello spirito eroico nordico. Infatti nella sua produzione narrativa Tolkien mette in contrasto l’eroismo depurato dall’ofermod (che è appunto un’invenzione letteraria e non già l’eroismo nordico) con l’eroismo nichilistico, orgoglioso e disperato, sciogliendo attraverso questa polarizzazione la lega metallica. È infatti nel territorio dell’invenzione narrativa che Tolkien si sente libero di trarre le conseguenze ultime della riflessione su Maldon, introducendo un elemento nuovo: la disobbedienza. Nel Signore degli Anelli sono i cruciali atti di disobbedienza ai propri signori compiuti da personaggi come Pipino, Merry, Éowyn, Éomer, Faramir, Beregond, Háma, ecc. che aiutano il piano provvidenziale a realizzarsi. Ed è Gandalf a enunciare il principio in base al quale si può contestare la volontà del proprio signore «quando significa follia e malvagità» (SdA, libro V, cap. VII). Per il cattolico Tolkien non c’era obbedienza dovuta in cui potesse annullarsi il libero arbitrio. Se c’è un problema sul quale ha riflettuto nell’arco di una vita è proprio l’eroismo nordico, guardandosi bene dall’esaltarlo acriticamente (tanto nella sua opera quanto nelle lettere), e anzi, cercando di indagarne la complessità sia contro lo stato della filologia corrente (E.V. Gordon) sia contro le semplificazioni politiche (Adolf Hitler).
4. Toc toc
Dulcis in fundo, Dal Lago ripropone la tesi dei vecchi lettori tradizionalisti sul Signore degli Anelli come manifesto sociale:
«Al di là del gusto letterario, qual è il gusto sociale, per così dire, che emana da questo romanzo? È quello di un mondo in cui i re sono buoni e governano saggiamente; in cui popolo ed esercito acclamano il sovrano; in cui i bravi hobbit, bevitori di birra e fumatori di pipa – cioè la piccola borghesia rurale -, compiono imprese straordinarie e vengono onorati dai nobili, in attesa di tornare al loro posto nella terra natale – mentre legioni di orchi, umani felloni e bestie varie ricevono il colpo di grazia da guerrieri vittoriosi» (p. 145).
È giusto tralasciare il fatto che Tolkien stesso avesse già rinviato al mittente una lettura politico-utopica della propria opera, giacché non è certo l’autore ad avere l’ultima parola su ciò che ha reso pubblico, ma il pubblico stesso, appunto. Se dunque questo è vero, allora nel 2017 è a dir poco puerile pensare che la capacità di un romanzo come Il Signore degli Anelli di parlare a generazioni di lettori derivi dal suo essere un manifesto «del legittimismo politico» (p. 145), oppure dal fatto che «ci racconta un mondo di sogno che si erge contro le brutture di quello reale» (p. 152). È una ben misera idea della letteratura e dei lettori quella sottesa a un’affermazione del genere.
Non una parola sui caratteri dei personaggi, sui loro dilemmi e scelte, sul libero arbitrio, la morte, la fede, il male, la perdita, la trasformazione del mondo, il rapporto maschile-femminile, quello uomo-natura, il problema del potere, la fine del tempo mitico e l’inizio di quello storico, e si potrebbero riempire altre dieci righe con i temi e le corde toccate dal romanzo, sui quali studiosi di mezzo mondo scrivono e fanno convegni… Dal Lago registra soltanto il “gusto sociale” reazionario e l’avvento dei re buoni. Tant’è. Ognuno legge nella letteratura quello che è in grado di leggere con i propri mezzi. Quelli di Dal Lago arrivano fino a lì. Nondimeno, per non peccare di modestia, decide di lanciarsi in una roboante conclusione sul Signore degli Anelli:
«Con questo romanzo la vittoria del bene è conquistata al prezzo di una gigantesca regressione letteraria; come se tutto quello che è stato scritto dalla metà dell’Ottocento in poi non avesse più alcun significato; né Dickens, né Flaubert, né Tolstoj, né Proust, né Joyce, né Kafka e nemmeno Eliot e Pound – per non parlare di Freud o delle avanguardie letterarie. Né gli abissi della società industriale, né i conflitti di ceto e di classe, né le complicazioni della psiche, né l’ambivalenza delle motivazioni umane trovano posto in questo radicale rifiuto della realtà» (p. 152)
Parlando di regressione, una sparata come questa rappresenta appunto un salto indietro di almeno cinquant’anni nella storia della critica letteraria.
Per fortuna gli studi contemporanei sono ormai più orientati all’approccio di un Henry Jenkins (Dal Lago lo conosce) che a quello di un Edmund Wilson (conosce e cita anche questo).
Per altro, ormai ci si è bene accorti che gli Inklings non furono una compagine o movimento letterario, come pretenderebbe Dal Lago, tanto meno schierato in antitesi al modernismo o alla letteratura contemporanea.
Per lo stato attuale della critica (Flieger, Rosebury, Garth) è assai più verosimile che quello tra Inklings e modernisti fosse un dialogo a distanza, che aveva una base comune: il riuso del mito. Solo che i modernisti usavano il mito con ironia, con riferimenti espliciti, collegandolo al passato perduto, mentre gli Inklings lo usavano direttamente, perché credevano che la mitopoiesi fosse una caratteristica fondante della condizione umana.
Da ciò Dal Lago deduce che lo scrittore inkling si concepiva come «un profeta, che parla letteralmente in nome di Dio e di Cristo, propagandone il messaggio» (p. 63), ed è assai probabile che di fronte a una così gretta banalizzazione del concetto di subcreazione – e dell’epilogo del saggio Sulle fiabe – anche un gentiluomo all’antica come Tolkien avrebbe avuto un moto di stizza violenta. Ad ogni modo, è il suggello perfetto di Eroi e mostri.
Alla fine viene da dire, con un po’ di tenerezza, che qualcuno dovrebbe raggiungere Dal Lago in mezzo alla giungla sull’isola del Pacifico in cui il suo saggio pare essere stato scritto, battergli le nocche sull’elmetto, e avvisarlo che la guerra è finita da un pezzo, e che la sua parte ha perso. E ha perso perché ha scelto di combatterla con le armi sbagliate. Non quelle della comprensione e della critica, ma quelle del rigetto e del pregiudizio.
LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Il Mulino
– Vai al sito dei fratelli Hildebrandt
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Ma come fa a produrre una critica tanto pregiudiziale e sovietica? Su Tolkien che ogni dieci minuti diceva a tutti di non fissarsi con troppe allegorie d’attualità, poi!
Gli elfi sono dei passatisti aristocratici, malinconici e agguerritamente isolazionisti (gli Elfi Alti ovviamente, insomma, non gli elfi dei boschi) ma non ammazzano nessuno (forse nell’impaurita fantasia di un hobbit che ne parla in taverna…) Non ne hanno bisogno: la reputazione li precede.
Forse Galadriel e i suoi sono in grado (e felici) di ammazzare intrusi, ma appunto dopo averli spiati e valutati. Quando ho letto la frase mi è comparso un Elrond truce e scintillante mentre urla . “This…is…Rivendell!”. E i re hanno sempre ragione, non solo umanità potenziale o capacità potenziale ma sono proprio tanti Beniti. Sì, come no? Andatelo a dire ad Eomer…