All’età di 88 anni è scomparsa la scrittrice Ursula K. Le Guin, più volte vincitrice, con i suoi romanzi, dei premi Hugo e Nebula, i massimi riconoscimenti della letteratura fantastica.
Nel suo discorso di accettazione della Medal for Distinguished Contribution to American Letters assegnata nel 2014 dalla National Book Foundation, disse: «Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora, capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall’ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande». La scrittrice statunitense ha numerose volte esplicitamente dichiarato i suoi debiti verso J.R.R. Tolkien, come, per esempio, nel libro Meditations on Middle-earth, una raccolta di riflessioni sullo scrittore inglese a cura di Karen Haber e scritta da molti dei più importanti scrittori contemporanei di fantasy e fantascienza (oltre alla scrittrice ci sono George R.R. Martin, Raymond Feist, Poul Anderson, Michael Swanwick, Esther M. Friesner, Harry Turtledove, Terry Pratchett, Robin Hobb, Diane Duane, Douglas A. Anderson, Orson Scott Card, Charles De Lint, Lisa Goldstein, Glenn Hurdling, Terri Windling).
Il suo amore per Tolkien
Ecco come Ursula legni ha raccontato il suo primo incontro con l’autore del Signore degli Anelli: «Erano esposti sul tavolo delle nuove accessioni della biblioteca universitaria: tre libri ben fatti, nell’edizione Houghton Mifflin, con sovraccoperte beige e nere, ognuna delle quali aveva al centro un occhio scrutatore, rosso e nero.
A volte uno di essi, o due, o tutti e tre, erano fuori, in prestito; a volte erano lì tutti e tre insieme. Non potevo fare a meno di notarli ogni volta che ero nella biblioteca, cosa che succedeva spesso. E mi sentivo a disagio. Mi scrutavano.
Saturday Review aveva pubblicato sull’ultimo volume un articolo speciale, che lodava l’opera con energia e convinzione inusitate. Allora avevo pensato: devo darci un’occhiata. Ma quando comparve in biblioteca, lo evitai timidamente. Mi faceva paura. Ha un aspetto noioso, pensavo, come Saturday Reviews. Probabilmente è pieno di affettazione. Probabilmente è allegorico. Una volta arrivai a prendere il secondo volume, quando c’era solo quello sul tavolo, e a guardare la prima pagina. Le Due Torri. C’erano delle persone che correvano per una collina, cercandosi a vicenda. Il linguaggio sembrava un po’ artefatto. Lo rimisi a posto. L’occhio mi trapassò.
Stavo leggendo (per ragioni che ora mi sono oscure) tutte le opere di Gissing. Credo che fossi andata in biblioteca per restituire Born in Exile, quando mi fermai a gironzolare con circospezione vicino al tavolo delle nuove accessioni, ed erano ancora lì, tutti e tre i volumi, a scrutarmi. Ne avevo avuto abbastanza delle malinconie di Grub Street. Ma sì, perché no? Andai a registrare l’uscita del primo volume, e tornai a casa insieme ad esso.
La mattina dopo ero lì alle nove, per prendere in prestito gli altri. Lessi i tre volumi in tre giorni. Tre settimane più tardi, a volte abitavo ancora nella Terra di Mezzo: camminavo, come gli elfi, sognando ad occhi aperti, vedevo contemporaneamente tutti e due i mondi, quello perituro e quello imperituro.
Stasera, diciotto anni dopo, proprio prima di mettermi a scrivere queste parole, stavo leggendo ad alta voce a mio figlio di nove anni. Siamo appena arrivati ai distrutti cancelli di Isengard, e abbiamo trovato seduti tra le rovine Merry e Pipino, intenti a mangiare e a fumare. A mio figlio piace Merry, ma Pipino molto di meno. Io non riuscirei a distinguerli così nettamente. Questa è la terza volta che leggo questo libro ad alta voce (il bimbo di nove anni ha sorelle più grandi, che ora lo leggono per proprio conto). Sembra che ne abbiamo acquistate tre edizioni. Non ho idea di quante volte lo abbia letto per me stessa. Rileggo molto, ma ho perso il conto delle riletture solo con Dickens, Tolstoj e Tolkien.
Tuttavia, credo che la mia esitazione, il mio istintivo diffidare di quei tre volumi della bilbioteca universitaria fossero fondati. Per dirlo con le parole del libro stesso: una cosa che possiede un grande potere, anche se di per sé totalmente buona, può diventare distruttiva se usata nell’ignoranza, o al momento sbagliato. Bisogna essere pronti; bisogna essere sufficientemente forti.
Invidio quelli che, essendo nati dopo di me, hanno letto Tolkien da bambini, tra questi i miei stessi figli. Non ho certo avuto scrupolo a esporli alla sua influenza in tenera età, quando la resistenza è minima.
Che fortuna, aver saputo dell’esistenza degli Ent e di Lothlórien!
Ma (per fortuna) pochissimi bambini scriveranno da grandi romanzi fantastici; e, nonostante la mia invidia, ritengo che sia stata una fortuna che personalmente non abbia letto, e non abbia potuto leggere Tolkien prima dei venticinque anni. Perché mi domando veramente se sarei stata in grado di reggerlo.
Dall’età di nove anni ho scritto racconti fantastici, e non ho mai scritto niente altro. Non assomigliavano affatto a quelli di nessun altro. Leggevo tutta la narrativa fantastica su cui potevo mettere le mani, Astounding Stories e cose del genere; per quel che ne sapevo, Dunsany era il maestro, colui che possedeva le chiavi dei cancelli di corno e avorio. Ma leggevo anche altri generi, e a venticinque anni, se riconoscevo di avere dei maestri, o dei modelli, nell’arte e nella narrativa, nel mestiere di scrittore, erano Tolstoj e Dickens. Ma la mia immodestia era eguagliata dalla mia ambiguità, perché l’immaginazione l’avevo tenuta per me. Non avevo modelli lí. Non ho mai cercato di scrivere come Dunsany, e, dopo i dodici anni, nemmeno come Astounding. Avevo una meta a cui arrivare, e, a mio modo di vedere, dovevo arrivarci da sola.
Se avessi saputo che qualcuno era arrivato prima di me, qualcuno molto più grande di me, non avrei avuto, forse, il coraggio di andare avanti.
Quando lessi Tolkien, in ogni modo, benché non avessi scritto niente di valore, ero abbastanza grande, e avevo faticato abbastanza a lungo sul mio mestiere, da essere sulla strada, da sapere quale fosse la mia strada.
Nemmeno la forza dell’ondata di quell’incredibile immaginazione poteva smuovermi dalla mia carreggiata personale e trasportarmi via con sé, sgambettando frignante come Gollum. Voglio dire, per quel che riguarda lo scrivere. In quanto al leggere, la situazione è diversa. Apro il libro, soffia il grande vento, la Missione comincia, io vado dietro…
Non c’è da meravigliarsi che molta gente detesti Il Signore degli Anelli, o lo ritenga noioso. Per prima cosa, la moda che c’è stata qualche anno fa – Forza Gandalf – sarebbe stata sufficiente a rendergli ostile chiunque.
Se lo si giudica secondo uno qualunque dei Sette Tipi di Ambiguità che infestano i boschi di Accademia, è completamente manchevole. Per quelli che cercano l’allegoria, deve essere una cosa da fare impazzire. (Deve essere un’allegoria questa! Frodo è sicuramente Cristo!… O è Gollum Cristo?) A coloro i quali bramano dosi sempre maggiori di «realismo» nelle loro letture, essendo la loro comprensione della realtà estremamente debole, non offre niente, se non, forse, una scorciatoia per il manicomio.
E può non piacere per molte ragioni più sottili; per esempio, il particolare ritmo del libro, l’alternanza continua di angoscia e sollievo, minaccia e rassicurazione, tensione e rilassamento: l’andatura del cavallo a dondolo (che è proprio ciò che permette a un bambino di nove o dieci anni la lettura di quel libro immenso) può anche non andar bene per un adulto che appartiene all’epoca dei jet. E poi c’è Aragorn, che è un pallone gonfiato; e Sam, che ripete tanto di continuo «signore», rivolgendosi a Frodo, che chi legge comincia ad avere folli visioni sulla fondazione di un partito socialista degli hobbit; e il sesso manca completamente. E c’è il Problema del Male, che, secondo l’opinione di alcuni, Tolkien non riesce assolutamente a centrare. A livello superficiale, queste argomentazioni sono valide. Sono le stesse argomentazioni di cui Tolkien dimostrò la completa assurdità, liberando così per sempre Beowulf dalla manomorta dei pedanti, nel suo brillante articolo del 1934, The Monsters and the Critics (I mostri e i critici), articolo, tra l’altro, che tutti quelli che ritengono Tolkien un Caro e Dolce Vecchio Signore farebbero bene a leggere.
Coloro che criticano Tolkien riguardo al Problema del Male sono di solito gli stessi che hanno una risposta al Problema del Male, che egli non aveva. Che genere di risposta è, dopo tutto, gettare un anello magico dentro un vulcano immaginario? Nessun ideologo, neanche un ideologo religioso, sarà mai contento di Tolkien, a meno che non ci riesca interpretandolo in modo sbagliato. Perché, come tutti i grandi artisti, egli sfugge all’ideologia, dal momento che è troppo veloce per essere preso dalle sue reti, troppo complesso per le sue imponenti semplicità, troppo fantastico per la sua razionalità, troppo reale per le sue generalizzazioni. Non riusciranno a tenere Tolkien in una bottiglia, sotto spirito e con un’etichetta, non più di quanto ci riescano con Beowulf, o con l’Edda, o con l’Odissea.
Sembra sbagliato dolersi alla fine di una vita tanto pienamente vissuta.
Ma, quando arriveremo alla fine del libro, so che dovrò atteggiare il mio viso a un freddo cipiglio, in modo che il piccolo Ted non si accorga che, quando leggo le ultime righe, piango:
«Egli vide una luce gialla e del fuoco acceso: il pasto serale era pronto, e lo stavano aspettando. Rosa lo accolse e lo fece accomodare, e gli mise la piccola Elanor sulle ginocchia.
«Egli trasse un profondo respiro. “Sono tornato”, disse».
Ursula K. Le Guin
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito ufficiale di Ursula K. Le Guin
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Grandissima Ursula Le Guin. Buon viaggio per Anarres.
R.I.P.