La XXIII edizione di Romics ha celebrato Martin Freeman, con l’assegnazione del primo Romics d’Oro mai attribuito a un attore. Il divo britannico è uno straordinario interprete di personaggi che dalla letteratura e dai fumetti sono passati al cinema, dalla televisione al teatro, in un’ottica assolutamente transmediale. Freeman è passato così dalla Guida galattica per autostoppisti a The Office a Fargo, dai film Marvel al supernatural thriller con Ghost Stories che uscirà nelle sale il 19 aprile. Ma uno dei ruoli più amati è quello di Bilbo Baggins nei tre adattamenti del romanzo di J.R.R. Tolkien Lo Hobbit (Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, Lo Hobbit – La desolazione di Smaug e Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate, usciti rispettivamente nel 2012, nel 2013 e nel 2014). L’attore britannico Martin Freeman, che ha incontrato ieri i suoi numerosissimi fan al Pala Romics, dove ha discusso della sua carriera artistica, dei suoi film più celebri, delle sue passioni e dei suoi progetti futuri.
Nel corso dell’incontro, preso d’assalto da migliaia di fan di Freeman nel padiglione 8 della Fiera di Roma, si è parlato anche della prossima stagione di Sherlock e del nuovi film in uscita. «Non mi piace incasellarmi in generi filmici specifici», ha detto l’attore, «preferisco essere coinvolto in belle storie e in belle sceneggiature. È stato un caso, infatti, aver interpretato ruoli dotati di una precedente vita letteraria. Non nego, però, che lavorare a sceneggiature tratte da libri è molto bello, perché infonde più ricchezza all’attore che deve interpretarli». E proprio a Romics, l’AIST ha ottenuto la possibilità di fare un’intervista in esclusiva a Martin Freeman tutta dedicata al suo rapporto con Tolkien, il ruolo di Bilbo Baggins e sulla nuova serie tv. Buona lettura!
L’intervista di Roberto Arduini
Mr. Freeman, sappiamo che non aveva letto le opere di Tolkien prima di partecipare alla trilogia de Lo Hobbit. A distanza di anni, ha ora letto qualcosa?
«Sì, ho recuperato! Non sono cresciuto leggendo i libri di Tolkien e ho conosciuto le sue opere solo attraverso la prima trilogia. Peter Jackson ha fatto un lavoro strabiliante per portare Il Signore degli Anelli dai libri allo schermo e questo è dovuto solo al fatto che lui ama quel libro e lo conosce approfonditamente. Lo stesso è accaduto per Lo Hobbit, che inizialmente doveva essere una saga di soli due film, poi divenuti una trilogia. Solo grazie a Jackson quell’operazione così difficile è potuta riuscire».
Aveva detto che avrebbe voluto leggere Lo Hobbit ai suoi figli: è riuscito a farlo?
«No. Avrei voluto, ma non ho più potuto farlo perché… loro hanno poi visto i film in cui c’ero io! Un po’ è anche dovuto al fatto che all’epoca dell’uscita dei film i miei figli avevano già superato l’età in cui solitamente si legge quel libro. Non ho voluto forzali e aspetto che si avvicinino da soli alla lettura».
Cosa le è rimasto dell’esperienza di quei film e della loro realizzazione in Nuova Zelanda?
«La Nuova Zelanda è una terra bellissima con gente bellissima. Non riesco ad immaginare la mia carriera senza quella esperienza. Il mondo di Tolkien, nel modo in cui Jackson lo ha visto, è poi molto inglese. Naturalmente, io sono inglese, quindi è stato facile per me immedesimarmi in quel mondo e portarmi dentro un ricordo ancora vivo di quei giorni. E poi, ho la mia versione personale di Bag End: la casa in cui vivo nell’Hertfordshire, a nord di Londra».
Quale è stata la cosa più utile per entrare nella Terra di Mezzo di Jackson?
«La cosa realmente utile oltre che tra le primissime cose ricevute, è stato una nota preliminare di commento direttamente da Jackson stesso, in anticipo sulla lavorazione, che gli sottolineava come gli Hobbit non fossero un popolo completamente umano. È stata la chiave di lettura più importante per entrare nel ruolo di Bilbo perché grazie a essa sono riuscito a rendere lo hobbit in parte umano in parte una creatura della foresta, cosa che poi si è riflessa sul suo atteggiamento fisico. Ogni hobbit è come un animale in basso nella catena alimentare, quindi c’è un’attenzione particolare a tutto ciò che lo circonda, a ogni potenziale pericolo perché in ogni momento qualche animale feroce può sbucare da dietro un albero e mangiarselo. È stato uno dei primissimi suggerimenti del regista, che però si è rivelato per me fondamentale nell’interpretazione del ruolo di Bilbo Baggins».
Come è giunto alla resa di questo ruolo, che mi sembra abbia un linguaggio del corpo molto accentuato?
«Esatto, ho voluto accentuare l’interpretazione fisica del piccolo hobbit proprio seguendo questa linea, anche perché non avevo molti altri punti di contatto con quel personaggio e quel mondo fantastico. Più in generale, un attore deve sempre lavorare sul fisico del personaggio che andrà a interpretare, anche perché quel fisico, quei gesti, quelle movenze andranno a informare di sé il personaggio rendendolo diverso e unico rispetto ad altri personaggi interpretati. Ci sono due tipi di approccio: quello tutto mentale, tutto è nella tua testa e questo si manifesta poi nel modo in cui si recita un personaggio; quello prevalentemente fisico, in cui se tu cammini per una stanza zoppicando, questo cambierà anche il modo in cui percepire il personaggio e l’ambiente esterno. Questo è il motivo per cui interpretando Watson nella serie Sherlock, gli ho dato un modo di camminare tipico di un ex militare che ha subito una ferita. Così Bilbo è continuamente all’erta e i suoi movimenti rapidi e silenziosi sono la conseguenza di una vita di una piccola creatura in un mondo più grande di lei».
Quindi interpretare Bilbo Baggins ha modificato il suo immaginario?
«Dopo quel ruolo, ho un grande rispetto per le opere di Tolkien. Si può dire che ora le apprezzo. È stato un bene poter entrare in quel mondo, anche se solo nella versione fornita di Jackson. Ho un grande rispetto per tutto il suo lavoro, anche perché – ed è una cosa abbastanza banale – è realmente il padre del genere fantasy e dobbiamo a lui se oggi ci sono così tante storie fantastiche. Il suo lavoro fornisce l’archetipo e il progetto per mille altre storie, penso che sia il motivo per cui persiste ed è così affascinante. Direttamente o indirettamente, tutti gli scrittori devono fare i conti con lui. La sua influenza sul genere è enorme e continua ancora oggi».
Amazon ha iniziato le trattative con i legali di Peter Jackson. Secondo te, la serie tv dovrebbe essere in continuità con i film oppure è meglio se avesse una forza immaginativa nuova e originale?
«Dal punto di vista cinematografico o televisivo è difficile prescindere da quell’immaginario. Generazioni di appassionati ci sono cresciute e non si possono nemmeno sottovalutare tutti i premi Oscar vinti dalla prima trilogia nei settori che hanno creato quel mondo, scenografia, effetti speciali costumi, ecc. Oggi, nel 2018, immaginare la Terra di Mezzo sullo schermo significa immaginare quella realizzata da Peter Jackson e così fanno bambini, ragazzi e giovani dai dieci anni in su. Insomma, l’ombra di Jackson su quell’immaginario è molto lunga! Chi prenderà altre vie farà una scelta importante. Eppure, come sa, il progetto originario de Lo Hobbit prevedeva la regia di Guillermo Del Toro e il suo approccio stilistico alla Terra di Mezzo era molto diverso da quello di Jackson. Solo il suo abbandono e il successivo ritorno del regista neozelandese ha permesso una continuità notevole tra le due trilogie, che altrimenti non ci sarebbe stata. Sicuramente, se ci sarà un nuovo regista – e deve essere brillante – porterà con sé la sua visione personale e originale di quel mondo fantastico. Del resto, lo stesso Jackson è stato il primo ad auspicarsi di vedere altri approcci alle opere di Tolkien».
GUARDA LA FOTOGALLERY
Fantastico, peccato essermi persa l’intervista, grazie per averla pubblicata.
Sicuramente sarebbe auspicabile che la regia della serie televisiva fosse fatta da un’altro regista, occhi nuovi idee nuove ne faranno certamente un ottimo prodotto, specie se il regista apprezza le opere del Professore 🙂