Abbiamo chiesto di ripristinare le “Venti righe”, abbiamo riportato in libreria le Lettere dopo 10 anni di assenza facendolo tradurre da Lorenzo Gammarelli e ora Bompiani ci ha chiesto aiuto per tradurre il capolavoro di Tolkien. A cinquant’anni dalla prima versione italiana de Il Signore degli Anelli poi più volte rimaneggiata – l’ultima nel 2003 -, tornerà così in una nuova traduzione finalmente all’altezza della sfida La Compagnia dell’Anello in tutta la sua generosa, esuberante, ludica malìa. Abbiamo indicato alla casa editrice un traduttore d’eccezione: Ottavio Fatica. Si tratta di un traduttore letterario di tutto rispetto: dopo aver esordito con Adelphi, ha lavorato a lungo per Theoria ed Einaudi e da diversi anni è consulente a tutto campo per Adelphi. Ha vinto il Premio letterario internazionale Mondello per la traduzione di Limericks di Edward Lear, nel 2007 il Premio Monselice per la traduzione di La città della tremenda notte di Rudyard Kipling. Nel 2009 ha vinto il Premio Nazionale per la Traduzione e nel 2010 il Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante per la traduzione de Il crollo di Francis Scott Fitzgerald. Tra i suoi lavori migliori, la traduzione dell’opera omnia di Rudyard Kipling, Moby Dick di Herman Melville e centinaia di altri scrittori inglesi e statunitensi.
Al prossimo Salone del libro di Torino, sabato 12 maggio, ore 14:00 nella sezione L’AutoreInvisibile curata da Ilide Carmignani, Ottavio Fatica e Roberto Arduini, presidente dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, dialogheranno su Tradurre Il Signore degli Anelli. Coordina Alessandro Mari della Scuola Holden. Per avere un assaggio di quell’incontro, pubblichiamo l’intervista integrale che Loredana Lipperini ha realizzato in esclusiva a Ottavio Fatica, di cui una parte è stata pubblicata su La Repubblica del 29 aprile 2018. Ringraziamo l’autrice per la cortesia.
L’intervista di Loredana Lipperini
Se ne discute da anni e ora, finalmente, avviene. Il Signore degli Anelli, sublime capolavoro del Novecento e testo amatissimo di J.R.R. Tolkien, sarà ritradotto in italiano e Bompiani pubblicherà il primo dei tre libri a novembre. Se ne discute e se n’è discusso: la prima traduzione è del 1967, quando la casa editrice Astrolabio pubblicò il primo volume, La compagnia dell’anello, nella traduzione di Vittoria (Vicky) Alliata di Villafranca, appena diciassettenne. Quando Rusconi diede alle stampe il romanzo completo, nel 1970, la traduzione venne rimaneggiata, su invito di Elémire Zolla, da Quirino Principe. Un’ulteriore revisione venne effettuata, a opera della Società Tolkieniana Italiana, nel 2003, a ridosso del successo dei film di Peter Jackson. Mai, però, si era messo mano all’intera traduzione, cosa che sta facendo uno dei maggiori traduttori italiani, Ottavio Fatica (cui si deve, per citare un solo caso, la nuova versione di Moby Dick di Melville). «Una sorpresa, dice, e insieme una grande sfida».
È un lettore di Tolkien?
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Sono un appassionato degli Inklings (il gruppo di discussione letteraria di cui faceva parte Tolkien, ndr), ma fin qui avevo letto soprattutto C.S.Lewis, Owen Barfield e Charles Williams. Di Tolkien conoscevo, in inglese, Il Silmarillion e Lo Hobbit. Possedevo Il Signore degli Anelli nell’edizione di Rusconi, ma non lo avevo ancora aperto. Ora sto scoprendo molte cose che ignoravo: per esempio, che sui muri dei campus americani si scriveva Free Frodo. Da noi arrivava ben poco di questo».
La traduzione precedente è stata molto criticata: a ragione?
«Per cominciare, tanto di cappello a una ragazza giovanissima che accettò un’impresa del genere: non avrei saputo farlo, alla sua età. E la sua traduzione possiede una virtù: è scritta in buon italiano, mentre oggi, nella maggior parte dei casi, si scrive in traduttorese, sul calco della lingua inglese. Detto questo, ha tutte le pecche di un’avventura improvvisata. Ma l’errore è stato soprattutto successivo, quando, su iniziativa di Zolla, il libro venne finalmente preso sul serio e Quirino Principe rivide una prima volta la traduzione. Ecco, bisognava pur rendersi conto che non era possibile correggere cinquecento errori a pagina per millecinquecento pagine. Non c’è paragrafo mondo da lacune e sbagli. Mancano verbi, avverbi, intere frasi, a volte si traduce a orecchio. Alliata toglie spesso l’inciso, che significa pur qualcosa, dà sfumatura al personaggio. Invece, aggiunge spiegazioni su spiegazioni. Diventa una parafrasi, decisamente brutta. Inoltre ha un suo curioso stilema: raddoppia gli aggettivi. Placido e tranquillo, rapido e veloce, misero e magro, crudeli e maligni dove l’originale era feroci. Sembra uno stilema di Tolkien, invece è il suo. Poi certo, lo legge un ragazzo in cerca di avventura e si appassiona lo stesso. Se a un giovane lettore dai una versione di duecento pagine di Guerra e Pace lo ubriachi lo stesso, la forza mitopoietica è intatta: ma se fossi stato un editor mi sarei almeno posto il problema».
Come affronta la diversità dei linguaggi degli abitanti della Terra di Mezzo?
«Gli elfi parlano una lingua più elevata e usano un tono leggermente aulico, gli orchi sono trucidi, gli hobbit più terragni, usano un linguaggio semi-popolare, anche se Frodo si esprime meglio degli abitanti di Hobbiton».
Ha detto Hobbiton e non Hobbiville, come nella traduzione precedente.
«Ma certo. È come tradurre Superman con Nembo Kid».
E quindi cambieranno i nomi dei luoghi e dei personaggi?
«I termini elfici rimangono in elfico. Sul resto, c’è da riflettere. Bisogna capire se lasciare quasi tutto in inglese o provare a ricreare in italiano il nome di un luogo o di un personaggio con un termine evocativo, come quando si indica una valle profonda o un guerriero grande e grosso. Poi, le trappole sono infinite. Per esempio. C’è un luogo, Stock, che viene tradotto con Scorta (è a Buckland, quella che conosciamo nella precedente versione come Terra di Buck, ndr) perché questo significa in inglese. Ma Stock proviene in realtà da un’antica parola di derivazione scozzese che indica una magione dispersa in aperta campagna. Anche Buckle, da cui provengono molti nomi, deriva da buckle: ma non nel senso di fibbia, bensì di daino. Certo, Alliata non aveva tanto materiale a disposizione, e noi italiani abbiamo più problemi dei nordici che attingono agli stessi etimi di Tolkien, le nostre radici sono romanze».
Come si cimenterà con le poesie presenti nel testo?
«Ci sono abituato, avendo tradotto Kipling. Mi diverto».
Rimarrà come conosciamo anche la famosa poesia dell’anello? Quella che termina con “Un Anello per domarli, un Anello per trovarli,/Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,/Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende”?
«La traduzione sarà diversa, non dico come. Rispetto la logica interna di Tolkien. Un piacere masochistico del traduttore è proprio quello di provare a riproporre lo schema inglese in italiano».
Sarà un Tolkien più snello, con meno aggettivi, e più fedele: più moderno, dunque?
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Il Signore degli Anelli vive nella pseudoeternità letteraria. Risente, certo, del mondo contemporaneo all’autore, e se è vero, come Tolkien ha scritto, che non vengono fatte dirette allusioni alla guerra, qualcosa dei due conflitti mondiali trasuda. Del resto una volta Chesterton disse che il libro più fantasy che conoscesse era Robinson Crusoe. Ed è vero. Ogni storia è fantasy, sia se costruisci una capannuccia su un’isola sia se sfidi un drago. La morte di Ivan Il’ič è fantasy. La letteratura lo è. Questo è un grande libro, non un fantasy».
Il momento più difficile che ha affrontato fin qui?
«Per ora nessuno e insieme a ogni riga. A volte una banalità si rivela complessa e quel che sembra insolubile si scioglie. È un’avventura, la vivo così. Sto viaggiando insieme a Frodo».
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Non vedo l’ora che esce!!!!