Con un anno di ritardo – costellato di polemiche di cui non parleremo – giunge finalmente in libreria la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello a firma di Ottavio Fatica e con la collaborazione dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST). Comunque la si pensi sull’argomento, si tratta di un evento fondamentale per la storia di Tolkien nel nostro paese, visto che per la prima volta l’opera del Professore viene affrontata con un’operazione editoriale di livello degno di un Classico della letteratura del Novecento. Non che la Rusconi – non prendiamo qui in considerazione l’edizione Astrolabio perché rimasta incompiuta – avesse presentato l’Opera in modo diminutivo, ma l’approccio editoriale era stato cauto e la storia della traduzione e della pubblicazione ne aveva inevitabilmente risentito, con la ormai famosa “incursione” di Quirino Principe che aveva radicalmente modificato, se in meglio o in peggio ancora si discute, la traduzione originale di Vittoria Alliata di Villafranca, risultando in un testo comunque pregevole, e per questo molto amato, ma non unitario, come testimoniato plasticamente, solo per dirne una, dal termine “Gnomi” comparso nella prima edizione del 1970 – ripreso dall’Astrolabio del 1967 – poi sostituito da “Elfi” nel 1974 con un “Mezzognomo” al posto di “Mezzoelfo” sopravvissuto (1) sino all’edizione del 2003 riveduta e corretta con la collaborazione della Società Tolkieniana Italiana (STI).
A 49 anni dalla pubblicazione della prima edizione, Bompiani, con un atto che meriterebbe rispetto anche solo per la dedizione all’Opera implicita nella scelta, per nulla obbligata, di cessare di dormire sugli allori di uno dei long seller più longevi della Storia, decide di investire su una nuova traduzione e, a rimarcare l’importanza del capolavoro di Tolkien, la affida a Ottavio Fatica, uno dei più grandi traduttori italiani nel cui curriculum figurano, tra gli altri, autori del livello di Rudyard Kipling, Herman Melville, Jack London, Robert Louis Stevenson e Joseph Conrad, ai quali, dato il contesto, è il caso di aggiungere Wystan Hugh Auden, che conosceva personalmente Tolkien per cui nutriva grande ammirazione al punto di farsene entusiasta sponsor nei confronti di lettori ed editori statunitensi. La scelta di un traduttore di tale peso non è certamente frutto del caso, ma, come accennato all’inizio, si inquadra evidentemente in un percorso volto a collocare Tolkien tra i Grandi del Novecento, liberandolo – finalmente, è il caso di dire – dai limiti di una peraltro poco fondata appartenenza di genere. Anche la scelta della controversa copertina “marziana”, come già accennato nell’articolo qui pubblicato il 30 settembre 2019, potrebbe essere l’espressione della suddetta volontà di “uscire dal genere”, che una copertina più “figurativa” non avrebbe rimarcato.
Passando alla traduzione, oltre all’indubbia qualità generale del risultato, è importante dal punto di vista tolkieniano la cura dedicata a due aspetti in particolare, ossia la resa dei nomi e quella dei registri linguistici. Sarebbe giusto anche parlare delle poesie, ma la cosa richiederebbe un tempo e uno spazio che al momento purtroppo non sono sufficienti.
I Nomi
Punto sensibilissimo per appassionati e studiosi in egual misura, la resa dei nomi è stata affrontata da Fatica con estrema cura e tenendo ben presente la Guide to the Names in The Lord of the Rings scritta appositamente – e precauzionalmente – da Tolkien come aiuto per i traduttori, nonché altre informazioni fornite qua e là sempre dall’Autore. Così, se Passolungo per Strider non introduce tutto sommato un grande cambiamento e Valforra per Rivendell ricorda in parte Lo Hobbit di Adelphi, chi dovesse rimaner spiazzato dalla sostituzione di Samvise con Samplicio dovrebbe fare un salto all’ “Appendice F” e riscoprire che il nome hobbit originario di Sam, Banazîr, significa “half-wise, simple”, reso da Tolkien con Samwise rifacendosi all’Anglosassone samwís che ha un significato molto simile. Fatica non solo rende quindi il nome con fedeltà, ma lo fa ricalcando un vero nome italiano in tempi passati relativamente diffuso, come testimoniato dal fatto che il Cattolicesimo Romano venera numerosi San Simplicio. Per rimanere agli Hobbit vediamo scomparire Gaffiere, soprannome ricalcato sull’originale Gaffer ma del tutto privo di significato, che viene sostituito con Veglio a rendere il significato originale di anziano degno di rispetto. Ancora fra gli Hobbit troviamo il cambio di cognome Oldbuck/Brandybuck, reso con un Vecchiodaino/Brandaino che suona decisamente meno singolare di Vecchiobecco/Brandibuck, non tanto per l’uso di “becco” – la Guide lascia un margine di ambiguità tra i due animali – ma perché ci si sarebbe aspettato “Brandibecco”; infine, non possiamo che chiudere con Barliman Butterbur che, privilegiando la fedeltà alla botanica rispetto all’allusione alla fisicità, difficili da ottenere contemporaneamente, viene reso come Omorzo Farfaraccio (come chi scrive sperava avendo sottolineato l’incongruenza botanica già nel 2017 nella presentazione alla Children’s Book Fair di Bologna). Anche Castaldo per Steward farà discutere, ma persino i più conservatori dovranno ammettere che per una città come Gondor la carica di chi “presso i Longobardi” era “l’amministratore delle rendite del re, posto sotto la sua immediata dipendenza, con attribuzioni civili, militari, giudiziarie e di polizia, entro i limiti del territorio affidatogli” (Vocabolario Treccani) è una resa di validità indiscutibile. Citiamo infine il caso di Farthing, usato da Tolkien nell’accezione originaria – e pressoché perduta – di “quarta parte di”, che Fatica rende con Quartiero mantenendo il senso di area di superficie espresso dall’originale ed evitando elegantemente, con la “o” finale, il conflitto con il diverso significato assunto nel tempo dalla parola “quartiere”.
Naturalmente non bisogna pensare che tutte le scelte ci trovino d’accordo. Forestali per Rangers, per quanto tecnicamente ineccepibile, trasmette a nostro parere una visione riduttiva e prosaica del ruolo dei Dúnedain, ben più alto e complesso di quello che la parola italiana ricorda; Cutèrrei e Nerbuti per Fallohides e Stoors, pur entrambi fondati, suonano un po’ inappropriati per un popolo gioviale come quello Hobbit, e Circonvolvolo per Withywindle sostituisce il Salice (withy) con il convolvolo (withywind), che Tolkien cita sì nella Guide ma come modello per la forma e non per il significato del nome.
I registri linguistici
Una delle ricchezze della prosa di Tolkien è l’uso di registri linguistici che mutano adattandosi alle circostanze e ai personaggi. Il linguaggio è rustico e informale quando gli hobbit della Contea, Veglio Gamgee in primis, parlano fra loro; Sam parla rustico fra sé e sé ma prova a parlar forbito con Frodo e Gandalf, con risultati comici; Frodo, Merry e Pippin scherzano fra loro con linguaggio giocoso, ma diventano cortesi quando si rivolgono a Elfi o interlocutori di alto rango; Bombadil è ritmato – spesso addirittura “metrico” in una sorta di prosa poetica – e un po’ folle; gli Orchi sono decisamente militareschi; gli Elfi aulici, e così via. Di tutto ciò Fatica si rende perfettamente conto e costruisce una resa linguistica che conserva, per quanto possibile, le differenze citate.
Il Veglio Gamgee parla una lingua efficace ma sgrammaticata, con “affocare” a rendere drownded – vulgar per drowned, dice l’OED – ed espressioni come “gli ha imparato a leggere e a scrivere” a rendere l’originale “has learned him his letters” – ancora vulgar – e “ci dico” per “I says to him”. Sam cerca di darsi un aria deferente chiudendo le frasi con appendici del tipo “mi segue?” o un ancora troppo confidenziale “non so se ci capiamo”. Tom Bombadil meriterebbe un’analisi a parte perché il suo esprimersi ha radici che affondano direttamente negli studi classici di Tolkien. Questo rende molto difficile la resa italiana, e in effetti la traduzione trasmette un certo ritmo e molta sana follia ma non il suono di prosa-poesia dell’originale:
E allora, miei piccoli compari,
dov’è che andate sbuffando come mantici?
Che cosa succede? Sapete chi sono?
Sono Tom Bombadil. Ditemi qual è il problema!
Tom va un po’ di prescia. Non mi schiacciate le ninfee!”(2)
In definitiva, il Traduttore si è posto l’obiettivo di mantenere la diversità socioculturale ed estetica delle parlate originali, arricchendo in tal modo il testo di una dimensione in più che gli fornisce verosimiglianza, spessore e varietà; non vediamo l’ora di vedere come sarà reso nelle Due Torri il registro basso-militaresco (e non solo) degli Orchi.
La collaborazione dell’AIST
Concludiamo questo breve articolo parlando della collaborazione dell’AIST al progetto editoriale della nuova traduzione. Tolkien non è un autore come tutti gli altri, e la quantità di rimandi, non detti, sfumature e particolari solo apparentemente insignificanti presenti nel testo – quali ad esempio un’importantissima virgola – possono ben sfuggire anche al più esperto traduttore qualora questi non sia anche un conoscitore del mondo e dell’opera tolkieniana. Qui è entrata in gioco l’AIST, che ha messo la sua conoscenza a disposizione di Traduttore ed Editore fornendo un servizio che è stato più di “consulenza” che di “revisione”, anche considerato che è evidente per chiunque che un traduttore dell’esperienza e del calibro di Fatica non aveva certo bisogno della seconda. Dopo due laboriose riletture e alcuni interventi dell’ultimissima ora – a bozze quasi in stampa – rivendichiamo dunque il piacere e l’onore di aver fornito una nutrita serie di osservazioni, piccole e grandi, che non menzioneremo ma di cui possiamo dire che sono state accolte in percentuale superiore all’ottanta per cento. Se la traduzione è dunque di Ottavio Fatica, che com’è ovvio ha avuto l’ultima parola su ogni cosa, possiamo affermare con un certo orgoglio che la collaborazione dell’AIST ha indirizzato nel verso giusto una serie di scelte che, pur se tecnicamente corrette, nel contesto dell’arazzo tolkieniano sarebbero risultate inappropriate.
La via prosegue senza fine … e presto porterà a Le Due Torri.
Giampaolo Canzonieri
Postilla sulla nuova traduzione della poesia dell’Anello
Se della traduzione delle poesie e canzoni presenti nel romanzo potremo parlare in seguito, vale tuttavia la pena anticipare almeno un’analisi della più famosa, che sta in esergo al romanzo, cioè la poesia dell’Anello.
La prima cosa che salta agli occhi è che nella prima metà la traduzione di Fatica non rispetta la rima del testo originale inglese ABABA. Il motivo è quasi certamente la scelta in favore di una maggiore aderenza al significato originale, rispetto al quale sarebbe stato necessario prendersi notevoli licenze per trovare la rima (come in effetti era nella traduzione storica). Tuttavia anche Fatica, come ogni traduttore, si prende delle libertà, in base a una ratio che possiamo indagare.
Il primo verso, “Three Rings for the Elven-kings under the sky”, è stato reso praticamente alla lettera:
Lo stesso dicasi per il secondo verso: “Seven for the Dwarf-lords in their halls of stone”, che diventa:
Cade l’aggettivo possessivo, ma il significato è immutato. La parola inglese “hall” significa infatti sala, aula, ovvero vasto ambiente chiuso, come la hall degli alberghi o la great hall dei college inglesi, o ancora quella delle regge degli antichi sovrani germanici. I Nani di Tolkien infatti scavano le loro sale nella roccia, in quelle che sono regge ipogee.
La traduzione del terzo verso – “Nine for Mortal Men doomed to die” – è un po’ più libera:
Letteralmente sarebbe: “destinati a morire”. Evidentemente Fatica ha voluto evitare la ridondanza tra “mortali” e “morire”, che in inglese non si avverte giacché invece “mortal” e “die” non hanno alcuna assonanza. Scelta opinabile, ma comprensibile. Quanto al “fato crudele”, il verso fa sì parte di una poesia elfica, ma l’uso del termine “doom”, che ha sempre un significato infausto e negativo, indica chiaramente che la descrizione è data dal punto di vista degli Uomini i quali, ad eccezione di pochi illuminati (solo Aragorn nel Signore degli Anelli), percepiscono la morte come una crudele condanna.
Il quarto verso, “One for the Dark Lord on his dark throne”, diventa:
Qui Fatica si è preso la licenza di non rispettare la ripetizione della parola “dark”, che, per altro, non significa propriamente nero, bensì scuro/oscuro. Più letterale – ma più farraginoso – sarebbe stato “Uno all’Oscuro Sire sul suo trono oscuro”, dove a prevalere sarebbe stato il suono “u” reiterato cinque volte. Ma è chiaro che Fatica ha voluto invece rafforzare il più duro suono “r”, e in particolare l’assonanza fonetica tra le ultime due parole dominate dal suono “tr” (“trono tetro”).
Una licenza maggiore sembrerebbe invece quella nel quinto verso, in originale: “In the Land of Mordor where the Shadows lie”, che Fatica traduce:
Il verbo “to lie” ha in inglese due possibili significati immediati, derivanti da etimologie diverse: mentire e giacere. Nel verso in questione sembra evidente che indichi uno stato in luogo, e che quindi sia il secondo significato quello appropriato. Tuttavia il verbo può assumere una sfumatura ulteriore, riportata dall’Oxford English Dictionary, nell’accezione di “to remain in a state of inactivity or concealment”, ossia, per l’appunto, “celarsi”. A Mordor le ombre non si limitano a “giacere”, bensì “si celano”, nascondono se stesse, in attesa del momento opportuno per uscire. È lì che Sauron riorganizza in segreto e cela le proprie forze, pianificando di invadere la Terra di Mezzo. Per altro la scelta di Fatica salvaguarda la possibilità di un’ambiguità voluta dall’Autore stesso nell’uso del verbo to lie, giacché “celarsi” può facilmente collocarsi semanticamente a mezza strada tra il restare immobile in qualche luogo e il mentire.
Ecco invece i tre versi finali:
One Ring to bring them all and in the darkness bind them
In the Land of Mordor where the Shadows lie.”
Tradotti da Fatica così:
Uno per radunarli e al buio avvincerli
Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano.
Nel terzultimo verso Fatica inverte l’ordine dei verbi: “trovarli” / “vincerli” – ed è la vera grossa libertà che si è preso – per motivi anche qui facilmente intuibili: mantenere la rima e l’assonanza con il finale del verso successivo (“find them” / “bind them” = “vincerli” / “avvincerli”). To bind viene dall’antico inglese bindan, col significato di legare, mettere in vincoli, imprigionare. Dunque “avvincerli” ci sta e corrisponde per altro a ciò che accade nel racconto: l’Anello Unico avvince, cioè tiene legati a sé, gli altri anelli.
Al di là delle mille valutazioni che si possono trarre, quello di Fatica è da un lato uno sforzo di rendere il significato dei versi e la loro connessione con la trama, privilegiando questo aspetto anziché cercare più facili e appaganti ornamenti estetici, dall’altro di conservare il ritmo della poesia stessa, come si evince confrontando la cadenza della sua traduzione con la lettura dei versi originali fatta da Tolkien stesso:
Wu Ming 4
Note:
1. Nel capitolo “Viaggio sino al Crocevia”.
2. La suddivisione in pseudo-versi è naturalmente stata qui introdotta al solo scopo di facilitare la comprensione.
ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Bompiani: le novità tolkieniane ottobre 2019
– Leggi l’articolo La traduzione della Compagnia a ottobre
– Leggi l’articolo Ritradurre Il Signore degli Anelli: l’intervista
– Leggi l’articolo L’AIST raddoppia, al Salone di Torino e col FAI
– Leggi l’articolo Tolkien alla Bologna Children’s Book Fair
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Articolo molto interessante. Grazie della spiegazione.
Ora non mi resta che mettere le mani su una copia della nuova traduzione