Il primo intervento al convegno “Fallire sempre meglio: tradurre Tolkien, Tolkien traduttore”, il 30 novembre scorso, è stato quello di Ottavio Fatica, che ha esposto le impressioni e le riflessioni ricavate da due anni di lavoro sul testo del Signore degli Anelli. Il traduttore si era già espresso in altre occasioni, ma in questa circostanza ha tirato le somme, concedendosi uno sguardo più complessivo, e nient’affatto comodo o compiacente.
Per larghi tratti il suo intervento è parso rivolto a noi tolkieniani, come volesse ricordarci che Tolkien è un autore tra molti, e che di nessuno è possibile decretare in anticipo quale sarà il posto nel pantheon letterario. Ergersi a difensori o detrattori a oltranza di un’opera artistica è come difendere o attaccare una trincea a prescindere dalle dinamiche della guerra, per sola fede nella centralità della posizione. Un’attitudine che ha portato allo stallo e allo stillicidio della Grande Guerra, tanto per dire.
Si potrebbe chiosare che acquisire questa lezione fa la differenza tra essere esclusivamente dei “fan” (fanatic) o essere anche dei lettori critici, cioè in grado di vedere le cose in prospettiva. Nell’epoca della cultura partecipativa non è necessario che le due attitudini siano in contraddizione, come sostiene da tempo il professor Henry Jenkins, e vale la pena credergli.
Bene, dunque, che Fatica abbia ripreso le più celebri stroncature del masterpiece tolkieniano, passandole in rassegna e cercando il loro nocciolo di verità. Un’attitudine corretta, appunto, se si vuole evitare lo stallo di cui sopra, dato che né le opere né le critiche vanno prese per oro colato, ma sempre contestualizzate.
Innanzi tutto Fatica ha ricordato la bocciatura dei primi editori italiani che ebbero in visione Il Signore degli Anelli, dovuta a una circostanza particolare: negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia stavamo ancora metabolizzando il realismo americano degli anni Trenta, essendo rimasti isolati dal mondo anglofono per tutto il ventennio del regime fascista. Il Signore degli Anelli era in totale controtendenza e incomprensibile per l’intellighenzia italiana in quel momento storico. Vittorini & co. non peccavano di chiusura o snobismo, ma erano aperti in direzione della grande letteratura americana con due decenni di ritardo. Ogni intellettuale è figlio del proprio spaziotempo. A questa riflessione Fatica ha aggiunto anche un’ulteriore appunto: all’epoca i grandi nomi firmavano le traduzioni, ma in realtà per loro lavoravano i ghost writer. Leggere tra le righe: non è affatto detto che al romanzo, anche con una firma di richiamo, sarebbe toccata miglior sorte di quella che poi ebbe. I bei tempi non sono mai esistiti.
Quindi Fatica ha rievocato le celeberrime stroncature dei due mostri sacri della critica letteraria statunitense, Edmund Wilson e Harold Bloom (il secondo non a caso tanto avverso a quella controcultura americana che invece trovò in Tolkien un autore di riferimento).
Per costoro Tolkien era un romanziere dilettante. Ed è innegabile che lo fosse: la sua professione era un’altra e in vita ha pubblicato soltanto due romanzi e qualche racconto. Se per i grandi critici della East Coast aveva lavorato con l’ingenuità del neofita sugli stereotipi letterari, Fatica ha aggiunto che gli mancava la disinibizione e la prolificità degli autori popolari e seriali, perché la sua non è narrativa popolare vera e propria, bensì segretamente ambiziosa, colta, con più livelli di lettura. Eppure gli è toccata la sorte della letteratura popolare, fino a sprigionare tutta la «forza mitopoietica dell’archetipo» e plasmare l’immaginario collettivo di un’epoca. In questi equivoci del destino si cela il segreto del “caso” Tolkien.
Ancora: Il Signore degli Anelli è ripetitivo, Bloom dixit. Oh, sì. Ma noi oggi possiamo dire reiterativo, il suo ritmo è questo, è ripetitivo come lo è l’Odissea, o il ciclo arturiano. Questo, Fatica non l’ha detto. Ha detto invece che la marcia degli Ent è «grandiosa».
Per Bloom i giochi linguistici di Tolkien tradivano una lingua «troppo cosciente di sé». Altroché! Mr Canone Occidentale aveva ragione, ma non considerava un fatto: che quel giocare con la lingua sfociava nel revival di certi «trucchi» medievali riutilizzati non già per citazionismo o divertissement, ma perché Tolkien credeva nell’efficacia del loro effetto e voleva riportarli in auge (vedi la lettera 171 e vedi l’intervento della prof. Roberta Capelli allo stesso convegno trentino).
E poi la questione degli Orchi, falciati come burattini, come se non fossero anime perse. Quante volte gli è stato rinfacciato in vita e dopo? E non ne stiamo forse ancora parlando a distanza di decenni? Non è rimasto un problema irrisolto anche per Tolkien, che ha continuato a rimuginarci sopra fino all’ultimo? Significa che lui stesso era consapevole che qualcosa non tornava e che alla sua coscienza di cattolico rimordeva l’aver lasciato margine al predestinazionismo, ancorché per creature ripugnanti. Chi lo ha detto che certe critiche snob non possono cogliere nel segno anche se mirano da un’altra parte?
Ancora: il gioco della provvidenza. Qui lo sguardo letterario di Fatica ha dribblato le annose elucubrazioni sulla visione della storia nell’opera di Tolkien, fatte in un’ottica teologico-filosofica, per ricordarci che ogni autore, in quanto sub-creatore produce il proprio mondo letterario, dunque può svolgere la trama secondo un piano provvidenziale e affermare che questo è il senso della storia del mondo – di quel mondo, come del nostro. Ma è troppo facile farlo affermare a Gandalf, cioè a uno dei propri personaggi. È come se in un romanzo poliziesco un detective ipotizzasse chi è l’assassino (Gollum) prima ancora che il delitto venisse compiuto (ruolo e morte di Gollum) ed evocasse anche le possibili conseguenze (eucatastrofe).
Fatica ha anche riflettuto sull’Incantesimo, chissà se è stato colto. Anche questa stoccata probabilmente era rivolta a noi lettori fan. Il teatro feerico è un’arma a doppio taglio, perché se si arriva a prendere troppo sul serio la realtà secondaria, a crederci, si rischia di sfociare nella «Illusione Morbosa». Si potrebbe aggiungere che quando un mito viene trasmesso agli altri con una finalità, messo a disposizione di un apparato di potere, cioè quando viene tecnicizzato (avrebbe detto Furio Jesi), le cose non vanno mai a finire bene. Nel Novecento si è scherzato parecchio con questo fuoco, con risultati catastrofici. Ma questo vale anche su una scala più piccola: occhio a non trasformare Tolkien in un demiurgo onnipotente, in un genio assoluto, in un sub-creatore da adorare. Rimane pur sempre un autore di storie, e peregrinare nelle sue terre alle quali sentiamo di appartenere, come direbbe qualcuno, è un’esperienza che non deve azzerare il nostro spirito critico, il nostro senso della prospettiva e delle proporzioni.
Da questo punto di vista, ha detto ancora Fatica, un vero scrittore non ha bisogno di essere difeso da chi lo critica, perché la migliore difesa è la qualità della sua scrittura. E le qualità a Tolkien non mancano, ha detto Fatica: «fantasia, visionarietà, ritmo narrativo incalzante, senso animistico della natura, solida tenuta nei passi di crescendo epico, e molto altro ancora». Infatti l’opera del Professore gode di ottima salute mezzo secolo dopo la sua morte. Che bisogno ha di essere sostenuto se non sta cadendo?
La stessa constatazione si può spendere per il testo narrativo, che non coincide con le sue traduzioni nelle lingue XY, e che non può essere sacralizzato, né caricato di «Verità», a meno che non si intenda fondare una religione (e qualcuno che vorrebbe beatificare il Professore pure esiste), trasformandosi da fan a fanatici religiosi, appunto. Se qualcuno pensa che il passo non sia breve dia un’occhiata alla storia della Chiesa di Scientology.
A questo lungo preambolo sono seguiti gli appunti tecnici, che in molti, diciamocelo, avremmo voluto più estesi. «Poi ci sono i versi nascosti nella prosa. Non insisterò mai abbastanza su questo punto», ha detto Fatica. E ha spiegato che questa è una caratteristica dello stile di Tolkien, come di altri autori: Dickens, Melville, perfino Calvino. La prosa poetica nel Signore degli Anelli è la sua scoperta – come già era stato per Moby Dick – e nessuno può togliergliela. La scoperta di uno che la letteratura e il tradurre letteratura li conosce come nessun lettore italiano di Tolkien, ahinoi, anche se noi sappiamo la differenza tra hröa e fëa; uno che affronta la questione da traduttore, appunto, e sa che se la parola “soul” non compare nel romanzo (eccetto in una singola occorrenza, in un’immagine figurata), inserirci “anima” in traduzione è sia un problema concettuale e di lealtà al testo, sia un problema di registro. Altroché se lo è.
La prosa di Tolkien è a strati, dunque. C’è la superficie, e c’è tutto il resto, di cui nemmeno un madrelingua inglese è tenuto ad accorgersi, perché servirebbe una competenza da specialista o da accademico, qual era Tolkien, infatti. Eppure solo così si possono cogliere i punti di forza linguistici (ad esempio certe accezioni recondite) e i punti deboli sintattici (ad esempio l’abuso di avverbi), nonché le tantissime suggestioni letterarie che il testo contiene.
Poi c’è la questione che Fatica stesso ha definito spinosa. Quella degli anacronismi e delle parole fuori contesto.
Fatica ha cercato di evitare gli anacronismi, ha detto, o quanto meno di non inserirne arbitrariamente. Quindi niente “fila indiana”, “in picchiata”, “panorama”, “ciao”, “valigie”, ecc. Tutti termini ultracontemporanei in italiano. Tuttavia poi si è accorto che Tolkien non era affatto così puntiglioso come il suo traduttore. E non solo per il celeberrimo drago che passa «come un treno espresso», all’inizio del romanzo.
Ad esempio Fatica nota che Tolkien ha usato gratuitamente l’espressione «night-walkers», resa celebre da Yeats nella poesia Byzantium, in cui come nel romanzo, guarda caso, si descrive un’alba (e che Fatica traduce, quasi mantenendo l’ambiguità alla fonte, con «creature della notte»).
Fatica nota pure che, in un composto simile, Tolkien si è spinto ancora più in là: «nightshade», per ogni vocabolario e per ogni anglofono il nome di una pianta, cioè la morella o la belladonna (sì, proprio l’erba che dava il nome alla mamma di Bilbo e che nel primo romanzo era evocata col nome “italiano”), e che nel Signore degli Anelli compare due volte, nel senso letterale di night / shade, ombra notturna, ma scritto in una sola parola composta. Forse un divertissement, un riferimento criptico al romanzo precedente, o forse un gioco di rimandi interni e al tempo stesso ancora più estesi, se la prima accezione è connessa a Beren e Lúthien e la seconda ad Aragorn. Chissà.
Tolkien ha anche usato «dryad», cioè driade, la ninfa degli alberi nella mitologia greca. Cosa ci fa nella Terra di Mezzo?, si è chiesto Fatica, definendola la nota più stonata del libro. È vero, stona, ma talmente forte che non può non essere voluta. Per scoprirne la ragione forse bisognerebbe chiedersi dove si trova questa parola, cioè nella descrizione dell’Ithilien: «Ithilien, the garden of Gondor now desolate kept still a dishevelled dryad loveliness». Nel gioco di trasposizioni geografiche di Tolkien, l’Ithilien è l’Italia, è la parte meridionale della Terra di Mezzo corrispondente all’Europa mediterranea. Tolkien ce lo trasmette a modo suo, con una parola “spia”. E non una parola a caso: “driade” ci giunge sì dal greco, ma è parola d’origine celtica, viene da “drus”, cioè quercia, e ha la stessa etimologia di “druido”. È una parola ponte tra le culture europee, che collega il Mediterraneo al continente. Ecco l’Italia, appunto, un giardino abbandonato (definizione perfetta) e decadente come l’immaginario evocato dalla figura della ninfa. Insomma potrebbe essere l’ennesimo gioco di parole-concetto in stile Tolkien, che conferma la sua autoindulgenza.
Fatica ha pure preso una cantonata, va detto, attribuendo la parentela del Vecchio Geronzio a Barbalbero (anziché a Pippin), ma sulla ridondanza onomastica ha ancora colto nel segno: Geronzio è nome greco-latino, in questo caso nome proprio di persona, che significa “Vecchio”. Se nella finzione narrativa i nomi hobbit sono tradotti in inglese, il significato del suo nome originario reso dal fantomatico traduttore con l’anglo-latino “Old Gerontius” quale doveva essere? “Vecchio Vecchietto”? “Vecchio Vetusto”? Ma del resto, compare un hobbit di nome Sancho, come il celebre scudiero di Don Chisciotte. A volte per Tolkien la voglia di giocare con i nomi era più forte delle esigenze di plausibilità.
Così, ha fatto notare ancora Fatica, nel testo compaiono “pencils”, “devils”, “devilry”, e perfino un “Lor bless you” o un “jovial”, nonché svariate citazioni bibliche. E via così.
Ma perché tutto questo insistere sugli anacronismi lessicali? In fondo Fatica ha premesso che l’espediente narrativo del Signore degli Anelli è quello del manoscritto ritrovato e tradotto, dunque una parola più moderna può tranquillamente essere imputata al fantomatico traghettatore del testo verso il pubblico odierno. È proprio questo l’inghippo. Fatica “sgama” Tolkien che ricorre al suddetto espediente per garantirsi mano libera nei divertimenti lessicali, per poi diventare etimologicamente seriosissimo quando vuole indulgere nel suo vizio segreto. Così se per caso qualcuno pensava di far risalire il nomignolo “Sharkey” a “shark”, cioè “squalo”, o magari di farlo derivare dal germanico “schorck”, cioè “mascalzone”, svelando il gioco etimologico dell’autore, Tolkien in nota si premura di cambiare le regole: spiacente, ma è linguaggio orchesco, non anglosassone, e significa “vecchio uomo”. Riprova, sarai più fortunato. Inutile dire che giammai si permetterebbe questi giochetti con l’elfico o certe parole-asterisco dell’Old English, laddove invece prende assolutamente sul serio il proprio “vizio”, dedicandosi a ricostruzioni e genealogie infinite.
Questo, ha detto Fatica, è sleale nei confronti del lettore, che non può orientarsi nel rimando di specchi della “traduzione della traduzione” e al tempo stesso però è invitato a farsi linguista e fonoesteta. Nella migliore delle ipotesi questo implica l’uso di due pesi e due misure, nella peggiore equivale a invitarlo a giocare con le carte truccate. L’unico demiurgo di quel mondo, lingue incluse, è Tolkien stesso, infatti, che stabilisce norme ed eccezioni, etimi anglosassoni e traduzioni da lingue immaginate, scherzo e serietà. A queste condizioni (né potrebbero esservene altre) nessuno può davvero giocare con lui al suo gioco linguistico, per quanti ci abbiano provato e continuino a farlo. Perché la lingua viva, la lingua-mito, in cui lui credeva, esiste davvero soltanto nella storia vissuta, non inventata, e lui questo lo sapeva (non spese a caso la parola “Vice”, vizio appunto), e perché Il Signore degli Anelli non è davvero una traduzione.
Questa è in effetti l’unica vera imputazione di Fatica a Tolkien, mossa mentre ce ne svela trucchi, giochi di parole e riferimenti a chiave, come parte integrante del suo stile letterario. Per il resto il traduttore ha imputato molto a se stesso: sviste, alcuni errori, imprecisioni, eccessive cautele in certi casi, ripensamenti tardivi. E per fortuna che la comunità tolkieniana si è mossa per segnalare quanti più errori e migliorie possibili in vista delle nuove edizioni. Questa, c’è da credere, è stata una bella novità per Fatica, forse perfino una lezione, se nel suo discorso ha sentito di riconoscere questo contributo. Chapeau. Perché i fan sono così: buoni o cattivi, ben disposti o paranoici, frustrati o conservatori… ma comunque partecipativi. E questa è la metà piena del bicchiere del fandom, ovvero il rifiuto di quella concezione «referendaria» della letteratura – così stigmatizzata da Roland Barthes – in nome di una narrativa vissuta (re)attivamente.
Difficile dire quanti presteranno ascolto a Fatica. È facile supporre invece che in molti preferiranno fraintenderlo, magari perché non si sono trovati d’accordo con le sue scelte traduttive o perché non ha mai mostrato la necessaria reverenza per Tolkien. Resta il fatto che al convegno trentino abbiamo ascoltato il pezzo di uno specialista, finalmente, come l’AIST ha sempre voluto. Uno specialista non già dell’opera omnia di Tolkien, ma di letteratura, lingua, traduzione, che si è cimentato con Tolkien. Se ci ha detto cose poco piacevoli, senza blandire né l’autore né i lettori, dovremmo essere contenti di questa schiettezza, perfino nel caso considerassimo irricevibile ogni suo argomento. Perché di questo sguardo esterno, disincantato, professionale, noi tolkieniani abbiamo bisogno per arieggiare il nostro ambiente, se non vogliamo che diventi autoreferenziale, asfissiante, asfittico.
Occorre resistere alla tentazione di tornare al calduccio del nostro abituro hobbit e chiudere fuori il mondo esterno, come dice Gildor Inglorion della Casa di Finrod, citando il quale Fatica ha concluso il suo intervento. Il mondo esterno va sfidato e attraversato. De nobis fabula narratur.
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’università di Trento
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Fatica ha detto cose a mio avviso interessanti e importanti, mai sentite in Italia e forse nemmeno all’estero, specie nella parte finale della relazione, e non vorrei che questi miei appunti facessero perdere di vista il meglio del suo intervento, tra cui va incluso anche il fatto che Fatica ha ammesso più volte di aver sbagliato, tanto che nella versione in tre volumi ha corretto decine di refusi che gli hanno indicato i fan o di cui lui si è accorto: e qua tutti i tolkieniani dovrebbero lodare la Bompiani, che in tempi non lontani avrebbe certo rifiutato di rimettere mano al testo.
Scrivo infatti perché, nonostante questa tuo bel articolo, resto ancora perplesso sul rilievo mosso a Tolkien circa gli anacronismi. Tu scrivi:
“Fatica ha cercato di evitare gli anacronismi, ha detto, o quanto meno di non inserirne arbitrariamente. Quindi niente “fila indiana”, “in picchiata”, “panorama”, “ciao”, “valigie”, ecc. Tutti termini ultracontemporanei in italiano. Tuttavia poi si è accorto che Tolkien non era affatto così puntiglioso come il suo traduttore. E non solo per il celeberrimo drago che passa «come un treno espresso», all’inizio del romanzo”
Io non capisco il senso di questo rilievo. Che un traduttore non debba mettere anacronismi dove non ci sono, mi pare corretto. Che Tolkien in questo non sia stato puntiglioso come il suo traduttore, mi pare un dato di fatto. Ma la tua frase sembra voler dire che Tolkien “doveva” essere puntiglioso come il traduttore, e quindi doveva evitare anacronismi: ma questo per quale ragione?
Tolkien è un autore e fa quello che vuole: se mette un anacronismo, il traduttore deve tradurre con un anacronismo e se non lo mette, il traduttore non deve introdurre anacronismi (questo peraltro è quello che ha fatto Fatica, correttamente, e migliorando la traduzione precedente che invece li introduceva). Ma,ripeto, perché mai si avanza una sorta di critica a Tolkien?
L’esempio del treno espresso è macroscopico e dimostra appunto che Tolkien VOLEVA usare anacronismi. “Express train” è introdotto da Tolkien non da subito ma nella seconda versione di ‘A Long-expected Party”, e sopravvive a tutte le altre 4 versioni successive (si veda HoME vol 6): questo è un argomento forte alla luce del quale si può dire che TOLKIEN LO HA MESSO E LASCIATO INTENZIONALMENTE. Dunque, ripeto, non capisco proprio il rilievo per questo e gli altri anacronismi: ‘driade’ è quasi altrettanto eclatante per cui non può essere sfuggito a Tolkien.
Inoltre Tolkien può benissimo giustificare l’uso di anacronismi perché, come peraltro ha detto giustamente Fatica all’inizio della relazione, egli si finge traduttore del Libro Rosso, dunque poteva introdurre e giustificare tutti i termini inglesi almeno in essere al momento della “sua” traduzione: da qui il rilievo su “pencil” che nella lingua inglese appare solo nell’800 non lo capisco proprio.
Al limite si può rimproverare a Tolkien di non essere stato un traduttore fedele 😉 perché ha tradotto termini Ovestron con termini inglesi che non potevano essere presenti nella versione di Bilbo perché scritta millenni addietro…
Per questo non capisco bene cosa intendi quando scrivi:
“Fatica “sgama” Tolkien che ricorre al suddetto espediente [del traduttore] per garantirsi mano libera nei divertimenti lessicali, per poi diventare etimologicamente seriosissimo quando vuole indulgere nel suo vizio segreto”.
Ma cosa c’è da “sgamare”? Tolkien poteva introdurre tutti gli espedienti che voleva, e alla luce di questi giustificare tutti gli anacronismi che voleva: perché aspettarsi il contrario?
Ad ogni modo, penso che il testo scritto di Fatica che apparirà su I QUADERNI DI ARDA, ci farà meglio capire il senso di questi rilievi.