Ben cento anni fa, il 23 dicembre 1924, Michael e John Tolkien ricevono una lettera davvero particolare: una calligrafia tremolante in rosso e nero, una firma a forma di stella e un messaggio breve, ma chiaro su chi sia il mittente: Babbo Natale quell’anno non ha molto tempo per scrivere, però manda saluti affettuosi; la slitta lo sta aspettando. Si tratta della terza lettera scritta da Babbo Natale per i figli di J.R.R. Tolkien, la terza di una tradizione iniziata quattro anni prima, nel 1920, che legherà intimamente i bambini al Father Christmas che il padre crea per loro sotto forma epistolare. Le lettere continueranno ad arrivare per più di vent’anni, stimolando l’immaginazione e la fantasia dei piccoli Tolkien. Infatti, quando si creano miti o si lavora su quelli già esistenti, come fa Tolkien con il suo Babbo Natale, intrecciandoli all’infanzia si alimenta una delle abilità imprescindibili per l’essere umano: quella di creare storie. Ma da dove proviene tutto ciò?
Le fonti
Per tutta la vita, Tolkien ha amato non solo scrivere storie ma soprattutto raccontarle. I primi destinatari dei racconti sono sempre stati i figli, piccoli ascoltatori che hanno assorbito negli anni non solo le storie inventate dal padre ma anche quelle di altri autori. Tanti dei libri che Tolkien possedeva, infatti, sono stati letti a Michael, John, Priscilla e Christopher, come nel caso di George MacDonald e delle sue fiabe. Quest’ultimo autore viene ricordato anche nel saggio “Sulle fiabe” (1947) come uno di quelli che più hanno segnato la capacità immaginativa e poi creativa dello scrittore, che nello stesso saggio afferma di aver letto le storie di MacDonald proprio ai suoi bambini, tra cui una in particolare, La principessa e i goblin (1911). Seppur marginale, questa fonte ci dice moltissimo su ciò che arriverà alle orecchie dei piccoli figli tramite le lettere da Babbo Natale e, successivamente, con Lo Hobbit. Il racconto di MacDonald, infatti, ispira la lettera del 1932 in cui Orso Polare si perde in grotte abitate da perfidi goblin e questi attaccano la dimora di Babbo Natale, per poi essere sconfitti da Orso Polare e dagli Gnomi Rossi.
La mitologia nelle lettere
Una varietà di personaggi fanno la loro comparsa gradualmente nelle Lettere e sembrano comporre una vera e propria mitologia intima e familiare dell’autore. Coloro che abitano il Polo Nord non sono, infatti, introdotti in maniera canonica, ma appaiono piuttosto come protagonisti di una mitologia più ampia e, a un occhio attento, come delle vere e proprie rielaborazioni. Che la mitologia personale di Tolkien creata con il Legendarium influenzi anche opere minori come Le Lettere è stato confermato dallo stesso autore in diverse occasioni (Lee, 2014). Come per il caso dei goblin, le Lettere possono essere considerate una variazione sul tema anche per quanto riguarda lo sviluppo degli Elfi nella loro evoluzione dalle fiabe vittoriane e gli Gnomi de I racconti perduti di Tolkien fino agli Elfi saggi e austeri de Il Signore degli Anelli e il Silmarillion. Composti molto prima delle Lettere da Babbo Natale, I Racconti Perduti influenzano le prime nel profondo tanto quanto le prime poesie scritte dall’autore. Una del 1915, in particolare, “La casa piccina del gioco perduto” sembra ricordare l’atmosfera gioviale del cottage di Babbo Natale e, in una fase successiva, anche quella della casa di Bilbo ne Lo Hobbit.
Una complessa operazione narrativa
Tuttavia, l’operazione di Tolkien nelle Lettere da Babbo Natale è ancora più complessa. Oltre alla creazione di una mitologia personale e molto intima che dona ai suoi bambini, l’autore rielabora miti già esistenti che provengono dalla sua esperienza culturale e dai suoi studi. Father Christmas, infatti, era una figura già conosciuta in Inghilterra nella prima metà del ventesimo secolo. Si tratta di un personaggio ancora di successo nonostante la popolarità crescente dell’americano Santa Claus, personificazione del Natale nelle isole britanniche dalla sua prima apparizione nel quindicesimo secolo e poi rilanciato durante l’epoca vittoriana. Il Babbo Natale di Tolkien, quindi, accorpa diverse tradizioni che all’inizio del Novecento iniziano a mescolarsi. Tra quella anglosassone su un omone in abiti dorati che ricorda il fantasma del Natale presente di Dickens, quella europea di San Nicola che porta i doni ai bambini e quella americana di Santa Claus vestito di rosso, Tolkien rielabora e si appropria di queste tre figure per plasmarne una propria. Per quanto riguarda, invece, i suoi studi, anche nelle Lettere compaiono quelle lingue da lui a lungo studiate e inventate, che alimentano l’impianto narrativo delle storie dal Polo Nord. Infatti, in una lettera Babbo Natale riporta le iscrizioni dei goblin di cui sopra, un vero e proprio alfabeto pittografico che Orso Polare si ritrova a decifrare. In un’altra ancora, sono gli elfi di Babbo Natale a mostrare ai piccoli Tolkien la loro lingua definita “elfica” che ricorda, appunto, il Quenya. In un gioco competitivo, anche Orso Polare decide di mostrare le sue rune ai bambini, un tipo di scrittura non dissimile dalle rune naniche di altre opere tolkieniane.
Ciò che è alla base delle Lettere da Babbo Natale è forse l’elemento più importante che rende quest’opera “minore” di gran spessore. Tolkien riesce a costruire delle fondamenta solide per quella che non si può nemmeno canonicamente chiamare opera letteraria. Infatti, le Lettere non sono state scritte per la pubblicazione ma più come un esercizio letterario intimo e familiare, un regalo di un padre per i propri figli. Nonostante il piccolo obiettivo che si erano poste all’inizio, le Lettere sono l’esempio letterario perfetto di una rielaborazione di miti culturali e world-building che non fanno che sottolineare la capacità immaginativa e creativa del Professore.
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